Papa Francesco con Raùl Castro (foto LaPresse)

El Papa compañero

Matteo Matzuzzi

Antiliberalismo e comunitarismo. Cosa lega Francesco ai leader à la Castro

Roma. Non c’è solo Gianni Rivera (intervistato dal Corriere della Sera domenica) a considerare il Papa come unico líder politico credibile a livello globale. Basta andare in America latina e la leadership incontrastata di Francesco appare eclatante, come dimostra la mediazione del Pontefice richiesta per sanare le ferite e cancellare l’embargo tra Cuba e gli Stati Uniti (ruolo che gli fu riconosciuto in mondovisione da Raúl Castro e Barack Obama), nella vicenda controversa tra il governo colombiano e le Farc e, seppure in maniera più sfumata e non diretta, in relazione alla grave crisi in cui versa il Venezuela (Maduro s’è presentato in Vaticano il mese scorso, con Bergoglio che però ha ridotto l’incontro a mero atto di cortesia: “Quando un presidente chiede, lo si riceve, per di più era a Roma, in scalo. L’ho ascoltato, mezz’ora, a quell’appuntamento; l’ho ascoltato, io gli ho fatto qualche domanda e ho sentito il suo parere. E’ sempre bene sentire tutti i pareri”, ha detto ai giornalisti di ritorno dal viaggio lampo a Lund). La domanda è perché – molto più che con Giovanni Paolo II o Benedetto XVI – i capi di stato dei paesi latinoamericani, diversi dei quali autocrati universalmente riconosciuti, abbiano trovato un punto d’intesa con Francesco. Risulta banale pensare a una semplice questione di vicinanza geografica o linguistica.

 

Semplice, dice al Foglio Loris Zanatta, storico delle Relazioni internazionali dell’America Latina presso la facoltà di Scienze politiche all’Università di Bologna e autore di diversi saggi, tra cui “La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio” (Laterza): “Perché il peronismo nazionalcattolico in cui è cresciuto e si è formato Jorge Mario Bergoglio è assolutamente coerente con la visione del mondo dei fratelli Castro, di Mujica, di Evo Morales, di Chávez. L’idea di fondo è che la cultura appartiene al popolo e il terreno comune è il profondo antiliberalismo. Per questa categoria di leader, come per il Pontefice, la classe media è una classe coloniale e questa è una definizione che quarant’anni fa tutti, in America latina, avrebbero sottoscritto senza troppi problemi. Per questo dico che c’è una coerenza totale”. In che senso la classe media è anticoloniale? “Lo è in quanto minaccia alla cultura tradizionale del popolo, che è una figura mitica, custode dei valori cattolici”.

 

Ciò che manca, nelle complesse e variegate analisi che tanto spazio hanno trovato in questi anni – ben prima dell’elezione dell’arcivescovo gesuita di Buenos Aires alla cattedra di vescovo di Roma – è una seria riflessione sul rapporto tra il comunismo latinoamericano e il cattolicesimo. “Intanto diciamo subito che è il comunismo latino che copia dal cattolicesimo, e non viceversa”, aggiunge Zanatta: “Sì, Fidel Castro diceva che la dottrina cattolica è al novanta per cento uguale a quella della sua rivoluzione, ma mi sembra un’osservazione un po’ megalomane”. Più che altro, spiega, “una cosa è la dottrina marxista in senso tradizionale, declinata in molti modi e molte forme nel tempo. Come realtà popolare, però, col tempo il comunismo ha finito per affermarsi come eresia cristiana. Si può dire, che quando la politica prende il posto della religione, il comunismo va a secolarizzare il messaggio ristiano”. La matrice del comunismo in America latina “si richiama chiaramente a una matrice antiliberale. L’ordine sociale è un ordine naturale e non frutto di un patto sociale”. Uno dei rischi che si corrono quando si ha a che fare con la politica latinoamericana è di generalizzare, dimenticando innanzitutto che lì “non ci sono regimi socialisti, bensì regimi populisti che attingono all’immaginario tradizionale della cattolicità ispanica, e cioè comunitarista, corporativa, organicista, antiliberale, anticapitalista ed estranea alla democrazia liberale”.

 

Bergoglio populista? “Senza dubbio”, dice Zanatta, a patto di capirsi su cosa significhi il termine “populista”, concetto difficile da usare e talmente abusato nell’attualità mediatica da essere banalizzato. “Parlo di populismo pensando a un’idea di popolo inteso come comunità organica, che condivide cioè una cultura e fa leva sul binomio apocalissi-redenzione. E’ l’idea cioè di una sorta di popolo eletto che vivrebbe in armonia se non incombesse su di esso la tragedia”. L’apocalissi “è appunto tutto ciò che minaccia l’identità di quel popolo e oggi è la globalizzazione neoliberale. Il che ricorda un po’ la crociata del XIX secolo contro il liberalismo. I tempi sono cambiati, le circostanze anche, ma non è che si sia troppo distanti. Ecco che allora, contro l’apocalissi, si propone la redenzione”. E uno dei mezzi per guidare il popolo verso la redenzione è la rivoluzione, termine che ricorre costantemente a quelle latitudini, osserva Zanatta. E questo, dice, “è uno schema che si ritrova perfettamente in Bergoglio, in ciò che dice, nel suo modo di vedere il mondo. Direi senza dubbio che è interprete come altri del populismo latinoamericano”. 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.