I funerali delle vittime del terremoto ad Ascoli Piceno (foto LaPresse)

“Ho visto la rabbia contro Dio”

Matteo Matzuzzi
“Due sono le strade: o un totale abbandono a Dio, o una rabbiosa chiusura in se stessi”. Parla mons. Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno.

Roma. Anche dal male più assoluto, nella devastazione di interi borghi vecchi di secoli e nella morte di persone care, ci può essere il bene. “A prima vista sembrerebbe un assurdo anche solo pensarlo, ma l’esperienza mi ha insegnato che il terremoto o ti uccide per sempre o ti fa rinascere a una nuova vita, e quando tu rinasci a una nuova vita conservi sì le cicatrici del terremoto, ma hai uno spirito nuovo. Guardi la morte e la realtà con un occhio diverso, anche se qualcosa resta nel profondo”. Monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno da un paio d’anni, la notte del sisma dello scorso 24 agosto era nella zona colpita. Alle prime luci dell’alba, mentre i soccorsi iniziavano a raggiungere Arquata, Amatrice e Accumoli, stava scavando a mani nude tra le macerie, come tutti i sopravvissuti.

 

“Sepolte le vittime ora si comincia a percepire quali sono tutti i problemi legati al terremoto”, dice al Foglio. “L’esperienza – pochi mesi dopo il sisma del 2009, Benedetto XVI lo nominò vescovo ausiliare dell’Aquila – mi insegna che esiste un terremoto più profondo, nell’animo umano. Perché se la violenza del sisma ha distrutto le case, ha rotto anche qualcosa nell’animo delle persone. Certo, oggi ci si preoccupa come è giusto di ricostruire le abitazioni, ma la mia preoccupazione come vescovo è di lavorare per ricostruire questo qualcosa che si è rotto nell’anima delle persone che hanno perso tutto. Non sarà facile”. Torna, come dopo ogni calamità, la domanda, banale e drammatica: come si fa a mantenere la fede quando ci s’accorge che tutto ciò che si aveva costruito durante la vita non c’è più, che i congiunti sono sepolti sotto cumuli di pietre e travi di legno? “Umanamente direi che è impossibile. Ma dobbiamo riconoscere che la fede è un dono di Dio, e un dono di Dio è capace di superare tutte le difficoltà”. Il vescovo sa che il rischio di non essere compreso è alto: lui stesso, nell’omelia pronunciata sette giorni fa davanti alle trentacinque bare allineate sul parquet d’una palestra, davanti alle massime cariche dello stato, l’ha ammesso: “Ho letto sui social e mi hanno detto ‘Vescovo, però non ci ripetere le solite cose di voi preti, che in queste circostanze avete sempre parole per tutto’”.

 

E lui, mons. Giovanni D’Ercole, ha risposto che “no, è giusto che voi lo diciate, è giusto che voi lo gridiate. Anzi, diciamolo tutti insieme: ‘Signore tu parli, ci dici sempre le stesse cose. Ma qui abbiamo perso tutto. Tu dove stai? Apparentemente non ho ricevuto nessuna risposta’”. Un’assenza apparente, appunto. Perché oltre le lacrime, osservava il presule, “scorgerete qualcosa di più profondo”. “La forza dello Spirito aiuta a superare queste tragedie”, dice al Foglio, “e l’aiuto più importante che oggi può arrivare è la preghiera della gente. Qui molte persone si sono preoccupate di prestare soccorso, di aiutare come potevano. E ciò va bene. Ma l’aiuto più grande che oggi può arrivare è la preghiera. L’ho visto con i miei occhi, ad Arquata, ad Acquasanta, a Montegallo. Molti hanno perso un po’ tutto, case e affetti. Ma non la fede, che resta un mistero, un grande dono di Dio, appunto. Ecco perché oggi noi tutti dobbiamo offrire il massimo dell’appoggio e della vicinanza alle popolazioni colpite e le comunità – ed è questa la mia grande preoccupazione – devono restare unite, perché solo così si potrà ricostruire quel vincolo solido che c’era prima delle tre del mattino del 24 agosto scorso”.

 

Incolpare Dio per tragedie come quella che ha sconvolto l’Italia centrale è facile, spesso è l’unica cosa che rimane. Il vescovo di Ascoli lo conferma, racconta del primo impatto avuto con la devastazione: “Andando nelle zone colpite, quel mattino, ho percepito subito l’atteggiamento contro Dio, quasi che le persone volessero sfogare contro di me quei sentimenti indecifrabili contro di Lui”. Mons. D’Ercole riprende la frase che più è rimasta impressa della sua omelia ai funerali di stato, quel “e adesso che si fa?” domandato a Dio nelle ore della meditazione notturna, Libro di Giobbe davanti agli occhi, che è campeggiato sulle prime pagine dei giornali e ha animato anche un dibattito con qualche risvolto teologico. “Questa – dice – era la domanda che la gente mi rivolgeva in quelle ore. Adesso che Dio ha fatto questo, dove sta? L’ho sentito più volte, lo gridavano a me. Ma poi, la presenza silenziosa, la solidarietà continua hanno aiutato. Piano piano. Ed è così che stando accanto alle famiglie nelle tende, man mano che cercavano di ritrovare un congiunto disperso, ho visto scemare la rabbia”.

 

Rassegnazione? “No. Le persone che ho incontrato, anche in queste ultime ore, dicono per lo più che Dio così ha voluto. C’è un totale abbandono alla sua volontà. Dicono ‘non capiamo perché, ma ci rimettiamo alla sua fedeltà’”. Certo, non sempre accade così. “Ci sono due strade possibili”, dice mons. D’Ercole: “O questo abbandono totale, senza freni, o una chiusura totale. Un rigetto, una chiusura rabbiosa in se stessi, a evitare gli altri, a cercare la colpa in qualcuno o in qualcosa. Il mio compito, ora, è quello di lavorare affinché la prima strada prevalga. Non sarà facile, ma lo devo fare”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.