Legge Cirinnà, la Cei esulta a metà

Matteo Matzuzzi
Perché i vescovi (felici per lo stralcio della stepchild) temono la “creatività giuridica” all’italiana.

Roma. Tirano un sospiro di sollievo dalle parti della Conferenza episcopale italiana, guardando al destino che pare attendere il punto più controverso e contestato del disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili, la cosiddetta stepchild adoption, stralciata dal testo originario. Alla fine – si dice dalle parti del quartier generale sull’Aurelia – si è dimostrato che non serviva sbraitare, minacciare moti di piazza o insurrezioni, né richiamarsi ai fasti delle adunate di piazza del 2007, èra Ruini: il risultato che il Senato si appresta a partorire, infatti, rispecchia la linea che da settimane una parte consistente dell’episcopato – che ha avuto nel cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia, uno dei  rappresentanti più significativi – andava sostenendo: va bene il riconoscimento delle unioni civili, anche tra persone dello stesso sesso. Purché si impediscano le adozioni. Che poi era anche il mantra di Nunzio Galantino, seppur declinato nella sua consueta verve assai poco connotata da toni diplomatici. Una scelta da molti definita “al ribasso”, specie  se paragonata al chiaro no espresso dalla Cei di Camillo Ruini, nel 2007, ai tempi dei Dico. Una sorta di cedimento che il compromesso trovato in extremis non rende più “digeribile”.

 

Il sollievo c’è, ma ancora non è arrivato il momento della festa. C’è, sulla strada, infatti, un ostacolo che porta alla Corte costituzionale, chiamata a decidere oggi sul caso di due signore coniugate in Oregon desiderose di veder riconosciuta (cioè trascritta in Italia) una doppia  e reciproca stepchild adoption. Se la Consulta stabilisse che si può fare (potrebbe anche non entrare nel merito, come qualche precedente induce a pensare), il dibattito andato in scena a Palazzo Madama sarebbe di colpo azzerato. Come mai avvenuto. E’ anche per questo che ieri – oltre a deplorare “una creatività giuridica a senso unico”, e cioè a favore “della cosiddetta famiglia omogenitoriale” – il quotidiano della Cei, Avvenire, chiedeva che la Corte non si pronunci prima che il Senato abbia dato il suo responso: “Saggezza vorrebbe che l’eventuale pubblicazione avvenisse una volta concluso l’iter parlamentare”.

 

[**Video_box_2**]E’ appunto la “creatività giuridica” ciò che allarma i vescovi, convinti che il modo per far rientrare la stepchild dalla finestra sia sempre possibile. Timore condiviso anche da seicento tra magistrati, avvocati e notai che hanno sottoscritto nelle scorse settimane un appello del Centro studi Rosario Livatino in cui si chiedeva di cassare il disegno di legge Cirinnà, ritenendo che in quel testo non ci fosse nulla da salvare, perché approvato il ddl (con o senza stepchild adoption) sarebbe impossibile proibire la pratica dell’utero in affitto, che è “una conseguenza necessaria alla regolamentazione para-matrimoniale di persone dello stesso sesso. Diventerà un diritto. D’altronde, se saranno coppie riconosciute, perché mai dovrebbe essere loro vietato di gestire una gravidanza all’esterno, non potendolo fare (nel caso di due mamme o due papà) in modo tradizionale?”, diceva al Foglio il professor Mauro Ronco, che del Centro Livatino è presidente. Centro che ieri, mentre diveniva ufficiale lo stralcio della stepchild adoption, pubblicava una nota durissima – condivisa anche da presidenti emeriti della Corte costituzionale, che hanno firmato l’appello anti Cirinnà – in cui si afferma che “non ci sono precedenti di un tale disprezzo per la volontà del Parlamento, che non è stato posto in condizione di esprimersi neanche sul primo comma del primo articolo del ddl. Il matrimonio fra persone dello stesso sesso viene imposto per diktat e senza il minimo confronto nel merito”.

 

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.