Antonio Ingroia. Foto LaPresse

La discutibile autodifesta di Ingroia

Massimo Bordin

Commentando l'indagine nei suoi confronti per peculato dalla procura di Palermo, l'ex Pm inizia con una considerazione a cavallo fra l’improntitudine e la scarsa credibilità

L’autodifesa del dottore Antonio Ingroia a proposito della indagine nei suoi confronti per peculato dalla procura di Palermo inizia con una considerazione a cavallo fra l’improntitudine e la scarsa credibilità. Lamentarsi di aver appreso dai giornali di essere indagato è un rincrescimento che poco si addice a un ex pm. Per di più la notizia dell’indagine riaperta nei suoi confronti era già uscita circa un mese fa, di nuovo c’è solo il provvedimento di sequestro, di cui presumibilmente gli avrà dato notizia la sua banca prima dei giornali.

Quanto al merito, dopo le citazioni di rito dell’incolpevole Pasolini e del suo famoso incipit “Io so”, l’iniziativa giudiziaria viene spiegata come una ritorsione per la indagine sulla famosa trattativa stato-mafia. Qui Ingroia dà il meglio di sé ricorrendo alla sua vena autodistruttiva. Tiene a spiegare che si tratta comunque di una indagine monca, definizione che non suona di buon auspicio alla vigilia della sentenza. La mutilazione, spiega Ingroia, sarebbe stata eseguita attraverso il conflitto di attribuzione avanzato alla Consulta dal presidente Napolitano, bollato come “nemico del popolo”. Insomma la storia delle telefonate fatte cancellare dalla Consulta. Ma, e qui sta il punto, quelle telefonate Ingroia le aveva ascoltate e si era premurato di dire che non contenevano nulla di processualmente rilevante. Da quando non è più pm sostiene che quella sentenza della Consulta ha bloccato una indagine che a suo stesso dire nulla aveva da ricavare dalle intercettazioni oggetto della sentenza. La verità è che l’intera indagine è impostata con la stessa logica di quest’ultimo comunicato del dottore Ingroia.

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