Nicola Mancino (foto LaPresse)

La posizione di Mancino sulla Trattativa

Massimo Bordin

Marginale eppure emblematica. E' il paradosso del ritenere reticente un indagato che rifiuta di condividere una tesi dell’accusa puntata contro di lui.

Ieri al processo sulla presunta trattativa si sono svolte le arringhe dei difensori di Nicola Mancino. La posizione del ministro dell’Interno del governo Ciampi è in fondo marginale nel processo, eppure emblematica. L’ex senatore demitiano si ritrova imputato di falsa testimonianza perché non ha confermato la dichiarazione di Claudio Martelli, all’epoca ministro di Giustizia, a proposito di sue lamentele presso il titolare del Viminale per l’iniziativa dei carabinieri del Ros che incontravano Vito Ciancimino per avere informazioni su Riina.

 

Mancino quelle lamentele non le ricorda e, come ha fatto presente la sua difesa, c’è una sentenza – fra quelle che hanno assolto il generale Mori – che parla di “ricordi non sempre limpidi di un Martelli largamente influenzato da quanto appreso a posteriori e tutto preso probabilmente a rappresentarsi come paladino dell’antimafia”. L’aspetto paradossale dell’accusa a Mancino risalta ancora di più dalla seconda questione che ha portato Mancino sul banco degli imputati, la sua reticenza nel confermare l’ipotesi accusatoria che vede il suo arrivo al Viminale funzionale a un indebolimento della lotta alla mafia portata avanti dal suo predecessore Enzo Scotti. Il paradosso sta nel ritenere reticente un indagato che rifiuta di condividere una tesi dell’accusa puntata contro di lui. Per di più tutto si muove su un terreno scivoloso come quello delle interpretazioni delle complicate alchimie fra correnti Dc, all’epoca della Prima repubblica, nel momento di formazione di un governo. Una interpretazione del genere, basata sui retroscena giornalistici o sui pregiudizi ideologici, può essere affidata a una corte d’assise?