Nino Di Matteo (foto LaPresse)

Di Matteo e quella vecchia tesi su mafia e corruzione

Massimo Bordin

Qualche nota degna di segnalazione dalla cerimonia di consegna della cittadinanza onoraria al magistrato 

Sulla cittadinanza onoraria consegnata dalla sindaca Virginia Raggi al dottore Antonino Di Matteo, su questo giornale è stato detto già prima che l’evento giungesse a compimento. Fra le reazioni di ieri vale la pena di ricordare la sintetica definizione di “sconcia buffonata” proposta come giudizio da parte di Mauro Mellini, che è stato deputato radicale e membro del Csm, in una sua lettera aperta alla sindaca. Vale la pena forse di segnalare, leggendo dalle agenzie le parole pronunciate dai due protagonisti nel corso della cerimonia, l’accorata recriminazione per il mancato accoglimento da parte del tribunale romano della natura mafiosa dei reati sanzionati nella nota e recentissima sentenza. La sindaca si è detta spaventata, il dottore Di Matteo ha espresso un giudizio più articolato, sostenendo come non si sia “compreso che il sistema criminale con cui oggi ci dobbiamo confrontare è integrato fra metodi mafiosi e sistema corruttivo”. La sua tesi porta come conseguenza la contestazione dell’associazione mafiosa nei processi a esponenti politici per reati contro l’amministrazione. È la tesi che Di Matteo già sostenne quindici anni anni fa alla procura di Palermo, per la vicenda Cuffaro, quando uscì sconfitto, insieme ai dottori Ingroia e Scarpinato, in un teso contraddittorio con il procuratore capo Pietro Grasso e l’allora procuratore aggiunto Giovanni Pignatone, contro cui particolarmente si addensarono le critiche, contrari a contestare il reato di concorso in associazione mafiosa. In quel caso però la procura poi la causa la vinse.

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