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I piani del pm Di Matteo dopo la "Trattativa"

Massimo Bordin

La questione che qui si solleva è marginale, è un dettaglio, ma indicativo come solo i dettagli sanno essere

Di come stia evolvendo, secondo copione, la marcia di allontanamento dal processo “trattativa” del dottore Antonino Di Matteo, leggerete sicuramente in queste pagine meglio di quanto si possa scrivere qui, dove ci si si limita a constatare che, più che una candidatura a semplice parlamentare Di Matteo gradirebbe direttamente una nomina a ministro. In proposito è comunque disponibile a lasciare una opzione al futuro presidente del Consiglio che potrà scegliere se utilizzarlo a via Arenula o al Viminale.

 

La questione che qui si solleva è marginale, è un dettaglio, ma indicativo come solo i dettagli sanno essere. Nei suoi interrogatori in aula Di Matteo ha sollevato il tema processuale della nomina di Mancino a ministro degli Interni. La tesi accusatoria è che Mancino fosse stato scelto perché più disponibile ad assecondare la famosa trattativa del suo predecessore Enzo Scotti. L’argomento usato dal pm Di Matteo, nelle sue domande a esponenti politici della Prima repubblica, per avvalorare la tesi dell’accusa su come quella nomina fosse sospetta, consisteva nel far notare che Mancino, prima di allora non fosse mai stato ministro. Naturalmente si trattava di un avvicendamento all’Interno della stessa maggioranza e, anche se l’argomentazione resta vagamente surreale, non si attaglia a un governo di una forza che non ha mai governato. Dunque Di Matteo, per non destare sospetti, farebbe il ministro solo con il M5s. Almeno questo è logico ma rende inquietante il concetto che il pm ha espresso ieri in un’intervista: si tratterebbe di “continuare il lavoro fatto con la toga”. In termini di metodo, oltre che di merito, quello che inquieta non è tanto la continuazione ma l’antefatto.

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