Bruno Contrada, il reato che non c'è e la legge (sui pentiti) che c'è

Massimo Bordin

Luciano Violante lo fece notare 25 anni fa, dopo l'arresto del poliziotto: all'epoca gli agenti lavoravano con gli “informatori”. Ma poi non disse altro 

“Bisogna leggere le motivazioni”. Lo dicono sempre dopo una sentenza non prevista e nel caso di Bruno Contrada suona meno ipocrita che in altre occasioni. È innegabile che la faccenda sia complicata e a mostrarlo basta un breve riassunto. Imputato per “concorso esterno” con la mafia, il funzionario di polizia, e poi dirigente del servizio segreto per l’interno, fu prima condannato, poi assolto in appello, poi la cassazione annullò e allora fu ricondannato in appello e la cassazione fu soddisfatta. Provate a paragonare un simile ambaradam alla formula anglosassone che governa la giustizia: “Al di là di ogni ragionevole dubbio”. Siamo largamente al di qua, ma provate a dire che i tre gradi di giudizio, pressoché automatici, vi ricordano la calcistica “lotteria dei rigori” e allora magistrati, e avvocati, vi salteranno alla gola. “È il massimo del garantismo – diranno – e ce lo invidiano tutti”. Sanno benissimo che quello che invidiano sono gli stipendi dei magistrati. Le parcelle, gli avvocati riescono a farsele pagare in qualsiasi parte del mondo. Ci voleva una corte europea per dirci che non si può essere condannati per un reato che non esisteva nel momento in cui sarebbe stato commesso? Il problema è che quel reato non esiste ancora nel codice. È solo un mix di sentenze di quella cassazione che tutti i magistrati del mondo ci invidiano. Piuttosto c’è qualcos’altro che, all’epoca dei fatti contestati a Contrada, non c’era e oggi c’è: la legge sui pentiti. All’epoca i poliziotti lavoravano con gli “informatori”. Lo fece notare Luciano Violante poche ore dopo l’arresto di Contrada, la vigilia di Natale di 25 anni fa, ma poi non disse altro.

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