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Le prove che mancano nel caso Ilaria Alpi

Massimo Bordin

La procura di Roma mette nero su bianco che quella giustizia “è impossibile”. Non c’è una prova sul movente e nemmeno sugli esecutori

Il caso Ilaria Alpi è una vicenda tristissima e difficile da affrontare. La battaglia giudiziaria della famiglia è durata quasi un quarto di secolo, il padre della giovane giornalista uccisa non c’è più, è rimasta la madre a combattere “per avere giustizia”, come scrivono in molti. Ora la procura di Roma mette nero su bianco che quella giustizia “è impossibile”. Non c’è una prova sul movente e nemmeno sugli esecutori, dopo che un processo ha chiarito che il somalo che era stato condannato era al di là di ogni ragionevole dubbio, estraneo ai fatti e chiamato in causa da un connazionale che pensava di guadagnarsi così la residenza, e qualcosa di più. Niente traffici internazionali, niente segreti indicibili scoperti dalla giornalista, e nemmeno depistaggi. Non c’è una prova di tutto ciò, scrive la procura romana chiedendo l’archiviazione al Gip, e ha perfettamente ragione, anche se la sua richiesta viene commentata “con delusione e amarezza” dall’onorevole Perini del Pd e con “sconcerto e rabbia” dall’UsigRai. La vicenda deve per forza prevedere le crepe dei “servizi deviati” in combutta con i trafficanti di scorie nucleari. Un’inchiesta, in particolare, aveva alimentato in questo senso le aspettative della famiglia. L’inchiesta “Cheque to cheque” della procura di Torre Annunziata prospettava un rapporto fra i traffici del materiale nucleare e l’omicidio della giornalista Rai. E anche quell’inchiesta si è chiusa. L’anno scorso la Corte d’appello di Roma ha prescritto i sei anni di reclusione cui era stato condannato per peculato Alfredo Ormanni, procuratore che diresse quell’inchiesta rivelatasi una gigantesca truffa per lucrare rimborsi spese fasulli costose trasferte internazionali e auto di lusso. Povera madre.

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