Nel suo racconto, Buzzi è il punto estremo del welfare

Massimo Bordin

La sua mentalità è quella dell’efficientismo che entra in urto con un sistema che paga il lavoro in ritardo per potere tenere in pugno il piccolo imprenditore al fine di lucrare dagli utili che sono concessi

Nel processo “Mafia Capitale” l’interrogatorio di Salvatore Buzzi è una pietra miliare. Uno dei principali imputati dà la sua versione dei fatti, ovviamente da prendere con le molle seppure raccontata con verve romanesca. Una storia che non ha la razionale passione del ricercatore, mancherebbe altro, eppure non è, o meglio non è solo, la immaginifica autodifesa di un imputato oggettivamente nei guai. L’interrogatorio si è protratto per oltre trenta ore, udienza dopo udienza, durante le quali Buzzi ha raccontato la sua versione, che al di là della fascinazione picaresca di vicende che scivolano ben oltre il limite del codice penale, ha descritto la crescita di una impresa partita dagli anni ottanta con il materiale umano meno affidabile e meno qualificato e arrivata, dagli originari otto lavoratori, a metterne a stipendio oltre duemila e cinquecento.

 

Sono persone che comunque lavorano per accogliere zingari e immigrati, curare gli alberi e il verde e raccogliere i rifiuti. L’imprenditore Buzzi diventa così, almeno nel suo racconto, il punto estremo del welfare. La sua mentalità è quella dell’efficientismo che entra in urto con un sistema che paga il lavoro in ritardo per potere tenere in pugno il piccolo imprenditore al fine di lucrare dagli utili che sono concessi. “Posso capire che mi si chieda una tangente per vincere un appalto dove ci sono dei concorrenti. Ma se sono il solo a concorrere e mi si chiedono soldi per poter essere pagato, quella non è una tangente, è una estorsione”. E’ una frase chiave, perché la considerazione di Buzzi non è banale ma forse allude al cuore del processo. Domani vediamo perché.

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