Col caso Deodato è in gioco la libertà di un sistema

Massimo Bordin
Dopo gli attacchi che ha subito per la sentenza sulle unioni gay, l'unico rischio che corre la carriera del giudice Carlo Deodato sta nella possibilità che qualcuno lo candidi a sindaco di Roma. Dovesse succedere, il giudice saprà guardarsene visto che, intervistato da Repubblica, ha saputo argoment

    Dopo gli attacchi che ha subito per la sentenza sulle unioni gay, l’unico rischio che corre la carriera del giudice Carlo Deodato sta nella possibilità che qualcuno lo candidi a sindaco di Roma. Dovesse succedere, il giudice saprà guardarsene visto che, intervistato da Repubblica, ha saputo argomentare con un senso della misura mancato a molti suoi critici o sostenitori. Gli aspetti della questione sono tanti ma uno può essere isolato. Chi lo difende, sostenendo che un giudice non possa essere attaccato per le sue idee, in molti casi fu tra quelli che manifestò, fin sulle scale del tribunale, contro le “toghe rosse”. Chi lo accusa, argomentando sulla necessità che il giudice non mostri le proprie opinioni politiche, si è magari trovato ad applaudire concitati comizi di magistrati che parlavano di inchieste che stavano svolgendo. Al di là del merito, in questi casi difetta la coerenza. C’è poi una sparuta minoranza di commentatori, esenti da questo tipo di contraddizione, che richiama l’antico brocardo del giudice che parla solo attraverso le sentenze. Suona bene ma, francamente, finisce per apparire l’evocazione di un “piccolo mondo antico” che pure non era questo gran che. Il fatto è che una sentenza va certo applicata ma, da che mondo è mondo, genera discussioni anche accese. E’ un importante indicatore della libertà di un sistema. Altro che “le sentenze non si discutono”. E deve valere per tutte le sentenze, e per tutti.