La Bindi e quel suicidio di massa di cui Renzi avrebbe dovuto tenere conto

Massimo Bordin
L’ascesa politica di Rosy Bindi trovò il suo trampolino di lancio nel Veneto, alla fine del 1992, quando vi fu inviata come “commissaria”. Smantellò le correnti avverse alla sinistra Dc in nome della lotta alla corruzione, pratica alla quale pure la sua corrente non era estranea.

L’ascesa politica di Rosy Bindi trovò il suo trampolino di lancio nel Veneto, alla fine del 1992, quando vi fu inviata come “commissaria”. Smantellò le correnti avverse alla sinistra Dc in nome della lotta alla corruzione, pratica alla quale pure la sua corrente non era estranea. Divenne rapidamente la beniamina dei padri gesuiti Sorge e Pintacuda, che dalla Sicilia lavoravano da tempo alla destrutturazione della Dc. Nel luglio 1993 Bindi annunciò da Abano Terme “la destituzione dei membri di partito inquisiti e dei vecchi capi corrente” proclamando la nascita del “partito popolare veneto” e dichiarando estinta la Democrazia cristiana. Vi furono polemiche fortissime all’interno del partito ma in fondo si può dire a distanza di più di vent’anni che la fine della Dc iniziò proprio ad Abano per mano di quella che i giornali cominciarono allora a chiamare “la pasionaria di Sinalunga”.

 

La vicenda è raccontata, fra gli altri, in un libro sulla fine della Dc scritto da Giovanni Di Capua, giovane democristiano ai tempi di De Gasperi e poi giornalista, che ne parla diffusamente nell’ultimo capitolo, intitolato “Suicidio di massa”. Renzi ne avrebbe dovuto tenere conto.