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pro choice e pro life

Perché l'aborto deve essere illegale e depenalizzato

Giuliano Ferrara

Mezzo secolo fa la Corte Suprema americana stabilì che abortire è una decisione appartenente alla donna incinta. Una nuova sentenza potrebbe rimettere in discussione quella legge

Quasi cinquant’anni fa la Corte Suprema americana, nove giudici a vita che fanno la base della legge per sentenza, decise che abortire è una decisione
 appartenente alla donna incinta, la sua privacy è inviolabile. Questa settimana la Corte potrebbe pronunciarsi diversamente e in una direzione opposta a quella di mezzo secolo fa. Dalla nuova sentenza potrebbe uscire un diritto a abortire, oggi tenuto per sacro, fortemente ridimensionato: legislazioni statali diverse, condizioni più o meno restrittive, lo stigma che trasforma un diritto di libertà, un totem della cultura liberal universale, in una occorrenza legale tutta da discutere socialmente, con la fine dell’incondizionata autonomia femminile in tempi di wokism.

E’ un problema serio sia per chi è pro choice sia per chi è pro life. Alla radice di tutto c’è uno scontro tra assoluti che non si può risolvere così facilmente come era sembrato. Io sono contrario all’aborto, penso che si debba fare di tutto per non considerarlo un diritto di privacy della donna.

 

Penso che questo diritto sia un inganno ideologico, che l’aborto è maschio innanzitutto, conviene alla società patriarcale cosiddetta, corrisponde a un’idea dell’amore e della sessualità alla lunga intollerabile per la società intera, e tragica per le donne incinte che devono prendere una decisione. Al tempo stesso penso che non si debbano punire né la donna incinta né la catena di responsabili per il suo orientamento o decisione favorevole all’aborto. E penso che siamo sull’orlo di un abisso, con la sentenza Roe vs Wade appesa a un filo, perché le sue conseguenze in mezzo secolo sono state tremende: l’aborto è diventato una bandiera di liberazione, di proprietà personale del corpo femminile e del corpo del feto, due elementi carnalmente e logicamente distinti, e mentre gli sviluppi della scienza e della biologia e della tecnica diagnostica ci mostravano la realtà di una vita battente nel ventre di una donna incinta e del dolore pertinente al suo annientamento abbiamo voltato la faccia da un’altra parte e con la pratica abortiva moralmente sorda a ogni obiezione, un servizio privato o pubblico con politiche attive di favoreggiamento della cosiddetta libertà riproduttiva, con nuove tecniche abortive come la pillola abbiamo costruito una mostruosità.

       

La soluzione la offre solo l’uscita dal pensiero tribale: tu uccidi la mia libertà, tu uccidi la sua vita. L’aborto deve essere illegale e depenalizzato, ma tutte le sue conseguenze devono essere legalmente definite da politiche attive obbligatorie che sanciscano lo stigma di reprensibilità etica della decisione abortiva. I feti abortiti non sono rifiuti ospedalieri, devono avere un nome e un cognome legale, devono essere legalmente seppelliti, e tutta la procedura deve mettere al bando il mito di una inviolabile libertà originaria e solitaria della donna nell’intera faccenda o tragedia, per dire meglio. Gli stati non possono punire la libertà di un corpo che rifiuta una gravidanza, ma le società, attraverso la legge e i governi e le politiche pubbliche, possono spingere per le adozioni, possono premiare e incentivare decisioni avverse all’aborto, possono e devono investire nelle virtù del volontariato pro life, salvaguardando ma non senza discussione e non come un totem ideologico il profilo pro choice della questione. L’aborto deve essere sempre più raro, sempre più sicuro, sempre più la conseguenza di una decisione sensibile alla quale concorre con la donna interessata una comunità attiva che la libera dal peso della punizione, la protegge sotto il profilo sanitario e indica le alternative valide per tutti, qualificando l’atto per quello che è, la distruzione di una vita incipiente, la negazione del diritto a nascere. Non vedo altre soluzioni.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.