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Le 10 ragioni per cui la legge stravolge la professione medica

Centro Studi Livatino

Un documento del Centro Studi Livatino analizza le gravi ripercussioni del testo sul biotestamento sulla professione medica

Il 28 marzo 2017 il Centro studi Livatino, costituito da giuristi a vario titolo impegnati nella formazione, nell’attività forense, nella giurisdizione e nel notariato, ha espresso in un appello una serie di riserve verso il testo unificato sulle DAT-disposizioni anticipate di trattamento. Una delle maggiori preoccupazioni dell’articolato riguarda lo stravolgimento del ruolo del medico che esso provoca.

 


1. La vita diventa un bene disponibile. Con questa legge accade qualcosa di molto grave: per la prima volta nel nostro ordinamento si afferma in modo esplicito il principio della disponibilità della vita umana contro quello della sua indisponibilità. Mentre il principio della indisponibilità della vita è inscritto nella Costituzione e nel complesso delle leggi ordinarie all’interno di una tradizione ininterrotta di civiltà giuridica italiana - si pensi alle disposizioni penalistiche che sanzionano l’omicidio del consenziente e l’istigazione e l’aiuto al suicidio o a quelle civilistiche che vietano gli atti di disposizione del proprio corpo -, il principio di disponibilità si è fatto avanti solo nell’ultimo decennio, in prevalenza per via giurisprudenziale. Si tratta di un capovolgimento di prospettiva, che avrà ricadute pesanti non solo per il medico, bensì per l’intero sistema giuridico. Quando nel singolo appartamento di un edificio si elimina un pilastro, è elevato il rischio che rovini l’intero palazzo (è accaduto qualche mese fa a Roma): la struttura di un ordinamento normativo non è dissimile. Rendere la vita un bene disponibile, oltre a essere gravissimo in sé e a incidere sui fondamenti della deontologia medica, fa chiedere perché altri beni, oggettivamente meno rilevanti della vita, devono restare indisponibili: dalla salute alla libertà, fino alle ferie, che ogni lavoratore è tenuto a svolgere senza che ne possa proporre la commutazione in indennità aggiuntive.

 

2. Il medico diventa un soggetto da cui difendersi. Il primo rigo del comma 1 dell’arti- colo 1 richiama le norme della Costituzione che costituiscono i riferimenti della nuova disciplina. Vengono citati l’art. 2 e l’art. 32 Cost.: poiché la p.d.l. tratta di salute e di diritti, presunti o reali, la loro menzione non appare fuori luogo. La norma evoca però pure l’art. 13 Cost., che, come è noto, sulla premessa della inviolabilità della libertà personale, pone la riserva di legge e uno specifico provvedimento giudiziario come condizioni necessarie per restringerla, anche da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. Che senso ha in materia sanitaria agganciarsi a una disposizione costituzionale - per l’appunto, l’art. 13 - che finora ha orientato la regolamentazione del rapporto fra cittadino, forze di polizia e autorità giudiziaria? Ha il senso di inviare d’esordio un monito al medico: se costui non eseguirà alla lettera le disposizioni di volontà del paziente sul trattamento sanitario elaborate un mese, un anno o dieci anni prima, sarà considerato alla stregua di un violento o di un sequestratore di persona, un soggetto che limita l’altrui libertà, qualcuno dal quale il paziente deve difendersi più che fidarsi per farsi curare. Ciò non sarà privo di effetti nei giudizi penali e/o civili che riguarderanno le scelte che sarà chiamato a compiere con le nuove norme.

 

3. Il consenso informato diventa il fondamento della professione medica. Il comma 2 dell’articolo 2 recita: “E’ promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia fra paziente e medico il cui atto fondante è il consenso informato (...)”. Il consenso informato diventa l’“atto fondante” del rapporto fra medico e paziente, in contrasto con millenni di civiltà che individuano invece come centrale in tale relazione il principio di beneficialità: l’attività me- dica è stata finora legittima e doverosa per il medico in quanto diretta al bene integrale della persona, cioè alla salvaguardia della sua vita e della sua integrità psico-fisica, nonché alla cura e all’alleviamento della sua sofferenza. E’ ovvio che il fine beneficiale non va calato autoritariamente dall’alto sull’ammalato, ma va perseguito attraverso l’alleanza terapeutica tra il medico e il sofferente. Il “consenso” al trattamento non è qualcosa che si contrapponga alla beneficialità, bensì è la partecipazione consapevole del malato alla realizzazione del proprio bene. Egli può valutare tale bene in modo difforme rispetto a quanto proposto dal medico nell’alleanza; per esempio, egli può preferire una cura farmacologica meno invasiva rispetto a un’altra più invasiva, magari indicata dal medico come più efficace. Può rifiutare un intervento chirurgico per i rischi che comporta o per i dolori che ne conseguono o per le minorazioni che ne derivano. Può affidarsi esclusivamente alle cure c.d. palliative ovvero limitarsi a insistere per l’accompagnamento verso la morte tramite analgesici. Il ruolo e il significato del consenso o del dissenso alla cura è rilevante: non è però il fondamento dell’attività medica, bensì il suo limite. Questa prospettiva viene capovolta dalla legge in discussione.

 

4. Il medico diventa un soggetto costantemente bisognoso dell’avvocato. Se le nuove disposizioni hanno un senso, l’impegno maggiore a cui il medico sarà tenuto nella loro applicazione consisterà nel far comprendere e accettare al paziente ogni singolo passaggio della terapia o dell’intervento che gli propone, correndo il rischio che una comprensione non perfetta - pur da lui non voluta - domani diventi oggetto di censura o di richiesta risarcitoria nei suoi confronti. Il rapporto fra medico e paziente, se è di pari dignità quanto alla persona dell’uno e dell’altro, non è paritario quanto a conoscenze, quanto a competenze, quanto a esercizio di responsabilità, quanto a condizione esistenziale: ridurlo - come fa la proposta di legge - a uno schema contrattuale non significa soltanto mortificare il medico. Significa pure limitarne l’operatività in danno del paziente, e renderlo bisognoso, passo dopo passo, del parere dell’avvocato: per capire se il consenso si è validamente formato e come si è formato, per capire se e come nel percorso terapeutico sono rispettati i dettagli del consenso espresso, anche di fronte all’insorgere di emergenze o di imprevisti. Se il consenso non si è esteso - e come avrebbe potuto? - al “che fare” di fronte a un imprevisto, il medico come deve regolarsi? Finora lo ha ben saputo, perché vige il principio di beneficialità. E domani? Tutto ciò senza che vi sia reale necessità di nuove norme in materia: da quanto affermano taluni fautori della nuova disciplina, parrebbe capire che il consenso informato non sia regolamentato. In nota 1 si riportano gli articoli 33 e 35 del Codice deontologico medico, che illustrano meglio di ogni sintesi le regole chiare che i medici devono osservare.

 

5. Tempi, esplicitazione e oggetto del consenso informato diventano le preoccupazioni principali per il medico. La nuova costruzione normativa è incompatibile con i tempi, con le competenze e con le scelte che un professionista può essere chiamato a compiere talora nel giro di pochi minuti: si pensi all’intervento urgente in un pronto soccorso, col paziente vigile e in grado di comprendere. Soffermarsi in quel contesto sull’illustrazione analitica ai fini del consenso può determinarne il decesso o comprometterne la guarigione. Andare veloci nell’informazione per salvare il paziente può far incorrere in responsabilità, se il consenso informato è diventato il nuovo fondamento della professione sanitaria. E’ ben vero che il comma 8 dell’art. 1 stabilisce che "Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico assicura l'assistenza sanitaria indispensabile, ove possibile nel rispetto della volontà del paziente”; ma è altrettanto vero che con disposizioni - quali quelle in esame - che incrementano il contenzioso, anche la valutazione dell’urgenza, in caso di in- soddisfazione del paziente e/o dei familiari per il trattamento sanitario ricevuto, sarà de- mandata all’esegesi del magistrato. E’ sufficiente scorrere, a conferma, le divergenze giurisprudenziali sui presupposti per l’adozione di provvedimenti qualificati “urgenti”.

Ancora; il consenso o il dissenso al trattamento andrà reso per legge in modo esplicito. Poiché però la legge è inserita in un ordinamento nel quale sulla materia si è formata una certa giurisprudenza - quella sul caso di Eluana Englaro, giunto fino alla Cassazione e alla Corte costituzionale -, come evitare che per via giudiziaria non sia fatto valere pure il con- senso presunto? Fondato, come è avvenuto per Eluana, su frasi pronunciate molti anni prima, in contesti totalmente differenti: chi può escludere che il giudice, inserendosi nelle maglie della legge, individui una volontà tacitamente manifestata che il medico non ha inteso rispettare, in presenza di norme così sbilanciate verso la disponibilità della vita? La sola ragione per intervenire per legge sarebbe proprio quella di introdurre disposizioni chiare che escludano forzature giurisprudenziali, invece che favorire ulteriori aperture a causa di norme confuse e ambigue. Esempio evidente di confusione è l’identificazione di ciò verso cui si indirizza il consenso, poiché la proposta adopera indistintamente - quali oggetto del consenso informato - i termini terapia, cura, trattamento sanitario: come tutti sanno, non sono la stessa cosa, hanno logiche e dinamiche differenti. Porre sullo stesso piano la terapia, che è quel che cerca di guarire una patologia, con la cura, che chiama in causa in generale l’assistenza all’ammalato, indipendentemente dalle sue possibilità di guarigione e dall’esito della patologia, significa porre le premesse per ulteriori problemi in capo al medico e al paziente.

 

6. Il medico diventa per legge esecutore di reati e/o di illeciti civili. Il comma 7 dell’articolo 1 stabilisce che “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”. Se il testo sente la necessità di fissare una così ampia esenzione “da responsabilità civile o penale”, è perché la condotta che pretende dal medico è in sé contraria o al codice penale o al codice civile o a entrambi. Con questo passaggio la legge afferma senza equivoci che sta imponendo al medico di commettere quello che - senza questa esplicita esimente - costituirebbe un reato, o quanto meno un illecito civile. La struttura giuridica adoperata è quella delle esimenti, come per esempio la legittima difesa: provocare lesioni, anche mortali, a una persona è vietato dalla legge, ma si va esente da sanzioni se si risponde in modo proporzionato a una aggressione ingiusta. Proprio le vicende della legittima difesa dovrebbero indurre a riflessione: ogni qual volta ne viene invocata l’applicazione ci sono problemi. Quando un commerciante reagisce all’intrusione di un rapinatore sparando magari dopo qualche anno può pure capitare che gli si riconosca l’esimente: nel frattempo è indagato, si ipotizza a suo carico dall’eccesso colpo- so all’omicidio volontario, è sottoposto a giudizio, e comunque paga un prezzo elevatissimo in termini materiali, oltre che di stress. Si vuol rendere tale la condizione quotidiana di ogni medico? Con una aggravante: pur se la vita di un commerciante che passa da una esperienza del genere è rovinata, l’evento non era programmato. Con questa p.d.l. si programma la rovina della vita dei medici, in presenza di una esimente il cui confine sarà sempre incerto, e quindi sempre rimesso alla valutazione discrezionale della magistratura.

 

7. Il medico diventa sempre più soggetto a denunce o ad azioni di danno, senza alcuna garanzia di copertura assicurativa. Quanto sopra riassunto è ancora più evidente se l’articolo 1 comma 7 è letto a fianco dell’articolo 3 comma 4: “(...) il medico è tenuto al rispetto delle DAT le quali possono essere disattese, in tutto o in parte (...), in accordo con il fiduciario, qualora sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. Quando queste norme opereranno, il medico si troverà di fronte un paziente non cosciente che ha lasciato anni prima disposizioni precise di sospensione della terapia, da cui deriverà un esito letale; nel frattempo, rispetto al momento della sottoscrizione la patologia sarà diventata aggredibile con previsione di successo. Se il medico rispetterà la volontà del paziente e lo lascerà morire, potrà incorrere in denunce penali e/o azioni civili da familiari che gli contesteranno di non aver praticato le nuove terapie. Se disattenderà le DAT e praticherà al paziente i tratta- menti sanitari necessari, andrà incontro ad analoghe denunce: la guarigione non sarà poi così certa - quando mai lo è? -, e comunque l’ammalato aveva stabilito diversamente. E’ la conferma che ogni medico avrà bisogno dell’avvocato più che dell’infermiere. Ma non è detto che l’intervento dell’avvocato - che ovviamente non è un volontario e costa - sia risolutivo. Non aiuta il riferimento al fiduciario: e se costui non è stato nominato? se non è reperibile e vi è urgenza? e quand’anche vi sia un fiduciario chi preclude che altri interessati denuncino o avviino l’azione di danno? Se il fiduciario è un figlio, un altro figlio non può rivolgersi al giudice? Nè aiuta la stipula di un’assicurazione. Nessuna compagnia assicuratrice liquida in automatico: svolgerà un’istruttoria che verificherà la scelta del medico. La valuterà positivamente ai fini della copertura se il medico avrà parametrato la sua condotta non al beneficio del paziente (non più atto fondante della professione), ma a quello che evita i danni maggiori. E’ ragionevole immaginare che l’assicurazione scaricherà sul professionista il mancato rispetto della previsione più facile e negherà la copertura al medico che, potendo applicare le DAT, invece ha ritenuto che le nuove acquisizioni fossero in grado di dare risultati.

 

8. L’eutanasia diventa il sostituto del principio di beneficialità. Nel corso della 16^ Legislatura la Camera dei Deputati aveva approvato un testo sul fine vita, il 12 luglio 2011, poi non divenuto legge perché era mancato il varo definitivo da parte del Senato. Nel testo attuale, a differenza di quello, sono scomparsi il riconoscimento del diritto inviolabile della vita umana, il divieto di qualunque forma di eutanasia, il divieto di omicidio del consenziente e il divieto di aiuto al suicidio. Questa voluta lacuna pone la p.d.l. in contrasto diretto con quel diritto alla vita che è il fondamento di tutti gli altri (art. 2 Cost.). Il confronto fra testi aventi il medesimo oggetto serve a interpretarne il significato: qualcosa vorrà pur dire se esistevano dei principi e dei divieti conseguenti, e oggi non ci sono più. L’articolo 1 al comma 5 prevede la revoca del consenso prestato, “anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento, incluse la nutrizione e l’idratazione artificiali”. Ma nutrizione e idratazione, pur se praticate per via di dispositivi artificiali, non sono forme di “trattamento”: non vanno confusi l’essenza e il fine di una cosa o di una funzione con i mezzi tramite cui la si attua. La nutrizione e l’idratazione costituiscono sostegni indispensabili alla vita, tanto della persona sana quanto dell’ammalato. Non perdono la loro essenza quando il mezzo della loro attuazione non è quello ordinario. Va aggiunto che l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione conduce alla morte della persona tra atroci sofferenze, e quindi costituiscono una modalità atroce di eutanasia passiva. Per evitare le sofferenze procurate da tali condotte, si ricorre abitualmente alla c.d. sedazione profonda, consistente nella somministrazione anticipata di analgesici anche in dosi letali. E’ evidente, allora, che la sospensione o l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione obbligano il medico a contribuire attivamente alla morte del paziente con un atto di eutanasia attiva.

 

9. Ogni medico e ogni struttura sanitaria diventano potenziali esecutori di eutanasia. Nella proposta manca il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, che costituisce un diritto fondamentale della persona umana, tutelato dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali sui diritti umani, come recita il Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 467 del 1991, ha chiarito in modo incontestabile che “[...] la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico”. L’articolo 1 comma 10 della pro- posta impone poi l’attuazione della legge a “ogni azienda sanitaria pubblica o privata”. In quel “privata” ci sono la Fondazione Policlinico A.Gemelli, l’Ospedale pediatrico Bambin Gesù, l’Ospedale Fatebenfratelli, l’Ospedale Cristo Re, il Campus Bio-Medico, solo per citare strutture sanitarie private di ispirazione religiosa presenti nella Capitale. E ancora: l’Associazione la Nostra famiglia (sedi in tutta Italia), la Fondazione Poliambulanza (Brescia), la Fondazione Maugeri (sedi in tutta Italia), la Casa di Sollievo della Sofferenza di S. Giovanni Rotondo, e le altre 100 strutture analoghe esistenti sul territorio nazionale.

 

10. Il codice deontologico del medico diventa inutile. Lo si è detto: non vi alcuna necessità dal punto di vista giuridico di una legge nuova sul consenso del paziente alle cure, alle terapie a ai trattamenti da prestarsi in fine vita: i princìpi costituzionali e del diritto internazionale (cfr. in particolare la Convenzione di Oviedo del 1997 sui diritti dell’uomo e la
biomedicina, il cui art. 9, nell’ottica di una vera alleanza terapeutica tra il medico e il mala- to, si limita a dire che i desideri del malato precedentemente espressi a proposito di un intervento medico “saranno tenuti in considerazione”) consentono già oggi di risolvere secondo scienza e prudenza i casi più problematici di conflitto tra l’abbandono terapeutico e l’eccesso futile delle cure. In uno col Codice deontologico, che costituisce l’ambito più adeguato delle regole per il medico: quando, come sta accadendo con le DAT, la legge pretende di costituire la fonte principale, se non esclusiva, di diretta regolamentazione, sovverte l'essenza della professione medica, fatta di scienza e di coscienza, e di decisioni ponderate, discusse e difficilmente formalizzabili. Le norme della p.d.l. sono con evidenza incompatibili col giuramento del medico: come si coniugano la vincolatività delle DAT - disposizioni date ora per allora - e le altre norme coercitive dell’attività sanitaria con l’impegno solenne che ogni medico assume a "esercitare la medicina in autonomia di giudizio e responsabilità di comportamento contrastando ogni indebito condizionamento che limiti la libertà e l’indipendenza della professione”? con l’art. 4 del Codice deontologico, per il qua- le “Il medico ispira la propria attività professionale ai principi e alle regole della deontologia professionale senza sottostare a interessi, imposizioni o condizionamenti di qualsiasi natura”? con l’art. 17 dello stesso Codice, per il quale "Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”.

La legge è fortemente voluta, da una parte consistente dei suoi fautori, solo perché è funzionale allo scopo di introdurre nell’ordinamento il principio che la vita è un bene disponibile. La posta in gioco è questa, e da essa dipende il futuro della professione medica. Vi è invece reale necessità di norme chiare che evitino derive giurisprudenziali ostili al diritto alla vita, riducendo le complicazioni nella relazione fra medico e paziente, e di un’azione di governo che dia piena attuazione alla legge n. 38/2010 sulle cure palliative.