(foto Ap)

bandiera bianca

Il calcio femminile va ignorato: è una questione di parità

Antonio Gurrado

L'equivoco è credere che le donne in sé possano rendere tutto bello e buono. Ma per essere alla pari dobbiamo riservare loro la stessa attenzione che riserviamo alla nazionale maschile di pallamano: cioè zero

Ho fatto il mio dovere politicamente corretto, ieri sera, guardando la nazionale femminile di calcio su Rai 1 e sentendomi all’avanguardia della parità. Non so se abbiate visto la partita anche voi. Era uno strano agone del mondo capovolto: femmine i giocatori, femmine arbitro e guardalinee, femmine gli allenatori, femmine addirittura telecronista e commentatore tecnico, dando la complessiva immagine di una specie di Arabia Saudita al contrario. Il risultato, non un gran che, è stato conseguito a colpi di scatti al ralenti, calcioni nell’addome, convulse colluttazioni d’area mentre la palla rimbalzava indisturbata, lisci in abbondanza e lanci lunghi alla viva la madre badessa.

L’atmosfera da sagra paesana è stata esacerbata dall’incontenibile esultanza naif dei tifosi azzurri quando è stato segnato l’unico goal dopo i cinque della Francia. Lì ho capito cosa mi avesse indotto fino a ieri a scansare d’istinto il calcio femminile: l’idea che, laddove uomini strapagati e sovente decerebrati guerreggiano prendendosi troppo sul serio, basti l’intervento delle donne per trovare tutto bello e buono. Niente pathos, niente ordalia, niente senso di tragedia incombente per la figuraccia. Ma nemmeno niente della tecnica sopraffina e del furore agonistico della nazionale femminile di pallavolo o di pallanuoto, per dirne due che meriterebbero di venire trasmesse su Rai 1 ogni sera. A fine partita ho spento la tv ripromettendomi di riservare alla nazionale femminile di calcio la stessa attenzione che dedico a quella maschile di pallamano o di hockey su prato, e mi sono sentito ancor più all’avanguardia della parità.

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