ANSA/MARCO OTTICO 

bandiera bianca

Musei chiusi e lettere aperte

Antonio Gurrado
Per chiedere a Conte di riaprire i luoghi della cultura Salvatore Settis si è imbarcato in un nobile apologo. Ma in un paese culturalmente inappetente come l'Italia sarebbe bastato molto meno 

Salvatore Settis scrive al presidente del Consiglio chiedendo che il governo torni sui suoi passi riguardo alla chiusura dei musei. Il dpcm infatti, spiega Settis, li considera “sotto la specie dell’assembramento” anziché come “insostituibili fonti di nutrimento culturale”. La lettera aperta potrebbe effettivamente anche finire qui, in quanto in una nazione culturalmente inappetente come l’Italia il solo considerare i musei come insostituibili fonti di nutrimento basterebbe a garantire sale sempre vuote e a premunirsi contro ogni tentazione d’assembramento. Settis invece vuole stravincere e continua argomentando che è indimostrato il postulato su cui il dpcm si regge, ossia “la gerarchia fra quel che è essenziale per vivere (la tabaccheria, il supermercato) e quello che non lo è (il museo)”. Qui Settis s’imbarca in un nobile apologo che culmina nella dichiarazione di Lucian Freud, il quale diceva di andare al museo come si va dal medico, a scopo curativo e dunque necessario. Più essenziale di così.

  

  

Ebbene, capisco il piano elevato su cui Settis vuol tenere il dibattito ma magari sarebbe bastato un discorso più terra terra. E cioè che il museo (ma anche la biblioteca, il cinema, il teatro e perfino la palestra o il centro tatuaggi) è un’attività essenziale ai fini della vita di chi lavora al museo (o in biblioteca, al cinema, al teatro, in palestra, nel centro tatuaggi); e che se pure arriveranno dei soldi per portare la cena sulla tavola di chi lavora al museo, eccetera, e dei suoi figli, ciò non toglie che l’attività di chi lavora al museo, eccetera, resti comunque essenziale in quanto determina l’identità, la realizzazione e la felicità di chi ci lavora.

 

Identità, realizzazione e felicità che qualsiasi governo dovrebbe avere a cuore come essenziali per qualsiasi cittadino. Non era una Repubblica fondata sul lavoro? Non c’erano il diritto di lavorare e il dovere di farlo per contribuire col proprio lavoro al progresso materiale o spirituale della società? Altrimenti c’è il rischio che i cittadini che lavorano al museo, in biblioteca, al cinema, al teatro, in palestra o al centro tatuaggi possano trarre un bel dì la conclusione che, se loro non sono essenziali per il governo, il governo non è essenziale per loro; e allora altro che assembramenti.

 

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