foto LaPresse

L'indulgenza ipocrita mascherata dietro la parola bullismo

Antonio Gurrado

Un cliché cronachistico che rischia di gettare nello stesso calderone cavatori di occhi e ladri di merendine allo stesso grado

Si può perdere un occhio per il bullismo? Il caso dell'adolescente di Pavia che (speriamo di no) rischia la menomazione per colpa dei propri compagni di scuola maneschi può condurre a riformulare la domanda. Ovviamente no, che un ragazzo non torni intero da scuola è sempre impossibile da accettare sia razionalmente sia umanamente. Bisogna però avere il coraggio di chiedersi anche se definire bullismo questo atto estremamente violento (e altri similari) non sia controproducente. Ridurre un'azione morale a fenomeno sociale implicitamente solleva chi l'ha compiuta dalla responsabilità di avere scelto di fare del male anziché fare del bene. Utilizzare un termine collettivo dai contorni sfumati ("I bulli") per indicare i responsabili di un'azione malvagia crea una vaga cortina dietro la quale nasconderli. Coniare uno specifico termine, valido solo all'interno del mondo scolastico o giovanile per definire atti che, altrove, costituirebbero violenza aggravata, sottintende l'ipocrita giustificazione che, in fondo, sono ragazzi. Stigmatizzare infine questi eventi ricorrendo al molle dizionario del cliché cronachistico rischia di gettare nel calderone del bullismo cavatori di occhi e ladri di merendine allo stesso grado. E dire che ci sarebbero tanti termini più efficaci per definire i cosiddetti bulli, anche se non tutti possono campeggiare sui titoli dei giornali.

Di più su questi argomenti: