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Se un tatuaggio vale più di un figlio, ecco lo spirito del tempo

Antonio Gurrado

Cosa ci insegna la storia della donna svedese che, pur di non modificare il tatuaggio con lo spelling sbagliato del figlio, gli ha cambiato nome all'anagrafe

Allora. C'è questa donna svedese che ha due figli e si fa tatuare i loro nomi sull'avambraccio; il tatuatore però sbaglia lo spelling e, anziché "Kevin", scrive "Kelvin". Senza perdersi d'animo, la signora - presumibilmente con l'arto ancora avvolto nella garza - va all'ufficio anagrafe e cambia il nome del figlio, così che il tatuaggio sbagliato risulti giusto. La storia del piccolo Kevin che diventa il piccolo Kelvin risale a qualche giorno fa ma continua a rimbalzare di sito in sito, di radio in radio, ancora oggi. Ci sarà un motivo se una notizia tanto trascurabile si rivela così pervicace. Viviamo in un'epoca in cui questa madre sempliciotta appare un'eroina che piega la realtà alle proprie esigenze e il tatuatore analfabeta incarna l'eterogenesi dei fini, poiché consente al bambino dal nome cambiato di scoprire la propria vera identità.

  

Una volta visto il nome con la consonante di troppo e appreso che l'operazione per rimuoverla sarebbe stata lunga e dolorosa, la signora svedese ha capito che Kelvin le piaceva più di Kevin, quindi all'atto di nascita aveva sbagliato a scegliere il nome. L'anagrafe infine anche in questo frangente si rivela poco più che decorativa, e la solida oggettività dei documenti viene piegata ancora una volta al servizio delle mattane individuali. Da buffo esempio della frivolezza di una madre e dell'improntitudine di un tatuatore questa storia è assurta a simbolo dello Zeitgeist; ecco perché ha tanto successo e ci piace sentirla raccontare ripetutamente chissà ancora per quanto.

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