Il padre di Alfie Evans (foto LaPresse)

La verità tragica è che oggi battaglie come quella per Alfie, più che scandalizzare, annoiano

Antonio Gurrado

La sconcertante superficialità con cui alcuni giornali hanno affrontato il caso del bambino britannico

Stamattina ho letto su un giornale: “Ma ora il tono conciliante assunto dai genitori, con l’ammettere che la loro battaglia è giunta alla conclusione, lascia sperare che la vicenda si ricomponga e che Alfie possa trascorrere in pace i giorni che gli restano”. Lì per lì non ci ho fatto caso; poi ho riletto e riletto ancora e ancora una volta. Alla quinta o sesta rilettura ho capito che era inutile sindacare su chi avesse scritto questa frase e su quale quotidiano; il solo fatto che fosse stata buttata lì senza alcun intento polemico, a coronamento di un composto trafiletto di cronaca su un giornale un po’ ingessato ad altissima tiratura, è stato sufficiente a dimostrarmi che oramai ogni tipo di militanza in favore della vita, più che scandalizzare, annoia. E che, come a me quest’oggi, a due milioni di persone sarebbe caduto un occhio su questa notiziola salvo poi non rileggerla né stupefarsi all’idea che il disperato tentativo di due genitori per salvare la vita di un neonato possa sottrarre serenità al figlio, lo agiti, non lo lasci morire in pace. Mentre scrivo e spedisco questo paragrafetto non so se Alfie sia ancora vivo né quando morirà; e mi dico che, parafrasando la celebre boutade, ormai è tardi per temere la cultura della morte in sé. A questo punto devo temere la cultura della morte in me.

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