Hamilton non si doveva scusare per aver detto al nipotino di non vestirsi da principessa

Antonio Gurrado

Ci sono tre cose che non tornano della faccenda del video postato su Instagram dal campione di Formula1 

Diverse cose non mi tornano della faccenda di Lewis Hamilton – costretto a scuse imbarazzanti dopo avere detto su Instagram a un nipote di quattro anni che i maschietti non devono travestirsi da principesse – ma di una soltanto non mi capacito. Anzitutto mi chiedo perché mai una persona debba pubblicare una propria conversazione privata. Mi rispondo però che questa smania di intercettarsi da sé e autodenunciarsi è il frutto avvelenato dell’illusione su cui si fondano i social network: ossia che le celebrità possano vivere come persone qualsiasi allo scopo di far sentire le persone qualsiasi in grado di comportarsi come celebrità.

 

Inoltre, dato che Hamilton presta i propri vincenti servigi a una casa d’auto, mi chiedo perché non abbia preso a colpi d’alettone i tirapiedi della Mercedes quando sono arrivati a persuaderlo alla pubblica ammenda, visto che le aziende devono essere al servizio del talento e non viceversa; mi rispondo però che il nostro essere singoli individui irripetibili, teoricamente esaltato dai social network, di fatto ha valore fintantoché la nostra vita privata ci rende testimonial del pecorismo.

 

Poi non capisco perché per Natale il ragazzino abbia indossato un costume, domanda che sarebbe valsa anche qualora avesse deciso di vestirsi da pompiere anziché da principessa; ne deduco che la vita d’oggi è talmente superficiale e frivola che tutte le feste sono uguali e ogni giorno è Carnevale. Ma ciò che proprio non capisco è perché, in questa baruffa familiare, tutti abbiano preso le parti del nipote che piagnucola dicendo “voglio” anziché dello zio che dice “devi”. Singolare scelta, ergere a manifesto ideologico della nostra felicità i capricci di un bambino di quattro anni.