Particolare dell'Eurotower, sede della Bce (foto LaPresse)

Moneta e investimenti. Ma il vero pilastro per crescere è uno: riforme strutturali

Su cosa deve puntare il nostro paese per diventare più competitivo sulla politica industriale, l’innovazione, il fisco e gli investimenti? Girotondo di idee. Con proposte concrete.

Da venerdì pomeriggio a domenica, pubblicheremo tutto il girotondo di idee - che trovate nel Foglio in edicola - con le proposte per una nuova agenda per l'Italia, che la rendano competitiva in tema di politiche industriali, innovazione, fisco e investimenti.

 


 

 

E’ un tornante impegnativo quello che attende l’Italia nei prossimi mesi. Per superarlo serviranno sia lo scatto del grimpeur che il fiato del passista, il senso tattico e la visione strategica. Il contesto esterno, diciamocelo francamente, non aiuta. Le incertezze addotte dalla Brexit sono solo l’ultimo inciampo al ritmo di sviluppo del prodotto globale. Il mondo oggi cresce del venti per cento in meno della media 1990-2010. L’inflazione è più bassa dell’ottanta per cento. Il commercio internazionale si espande a tassi inferiori a quelli del PIL mondiale. C’è un pianeta che invecchia, che migra e che comincia a mostrare i limiti nell’utilizzo delle risorse ambientali. C’è una globalizzazione ormai matura che trova difficoltà a varare nuovi accordi di integrazione e di scambio.

 

C’è un paradigma dello sviluppo che sta virando in maniera chiara da una crescita per addizione a una crescita per commutazione. Non si cresce più dappertutto, ma solo dove ci sono le condizioni di qualità e di sostenibilità per farlo. Si cresce dove si fanno gli investimenti. In un mondo e, soprattutto, in un Europa in difetto di sviluppo la politica monetaria prova a dare una mano. E lo fa con successo. Grazie alla politica dei bassi tassi di interesse mai come oggi l’onere del nuovo debito pubblico si è fatto lieve. In Germania i rendimenti all’emissione dei Bund decennali sono scesi intorno allo zero. In Italia si collocano su minimi storici. Mai come oggi il finanziamento in titoli degli investimenti pubblici è conveniente. E’ un’opportunità storica che ritengo assurdo non cogliere, per mettere in campo programmi a lungo termine di innovazione e ammodernamento delle infrastrutture fisiche e immateriali necessarie ad uno sviluppo inclusivo e sostenibile. Per chi sa leggerle, le sfide strutturali del cambiamento imporrebbero già oggi all’Europa di farsi protagonista del proprio futuro attivando senza indugio una vera politica fiscale unitaria e un programma ampio di investimenti finanziato da debito pubblico europeo: qualcosa di assai più grande, in misura e qualità, del pure apprezzabile sforzo rappresentato dal Piano Juncker.

 

La finestra di intervento della politica monetaria non rimarrà aperta per sempre. Né può il “quantitative easing” essere lasciato solo. I rendimenti eccezionalmente bassi delle attività “risk-free” servono a spingere gli operatori verso nuove e diverse forme di investimento. Importante è collegare questi investimenti a occasioni reali di sviluppo, non a circuiti di moltiplicazione della finanza sulla finanza. Nonostante tutte le nuove regole introdotte a valle delle crisi del 2008-12, oggi nel mondo ci sono 11 dollari di finanza per un dollaro di pil. Il calcolo, compiuto dal Servizio Studi di Bnl, ci dice che nel 2007 la leva della finanza sull’economia era 14 a 1. C’è ancora da lavorare per ancorare sempre più la finanza allo sviluppo.

 

Moneta, investimenti, riforme. In questo difficile tornante il terzo pilastro di qualsiasi piano di sviluppo è quello delle riforme. In un mondo che cresce per commutazione, attraverso le scelte di imprese che vengono ad investire qui e non là, sono le riforme a fare la differenza. Non una o alcune riforme, ma un processo permanente di cambiamenti strutturali che si integrano e sostengono a vicenda. Non solo riforme economiche, ma anche politiche e istituzionali. Riforme di lungo termine, che si associno a manovre congiunturali, nella logica del passista che possiede lo scatto del grimpeur.

 

Negli ultimi otto anni l’economia italiana si è mossa senza additivi. Per avere un termine di paragone, il nostro deficit pubblico, in media, è stato meno della metà di quello spagnolo. La durezza della crisi ci ha ferito, ma ci ha anche formato. Abbiamo saputo avviare alcune importanti riforme. Sta ora a noi saper proseguire. Approvare attraverso il referendum la riforma costituzionale significa continuare a lavorare ad un progetto di sviluppo basato sulla custodia dei principi, ma anche sul necessario adeguamento degli istituti. Un modello di sviluppo proprio di una democrazia governante, più veloce e più efficiente, e quindi più capace di dare ascolto alle istanze di cambiamento provenienti da dentro e fuori la nostra società. Fare un passo in avanti quando altrove si fanno passi indietro. Superare il tornante, invece di galleggiare sull’esistente.

 

Luigi Abete è presidente di Bnl