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Perché Apple non vuole pagare le tasse

Redazione
Sul piatto dello scontro tra Bruxelles, Dublino e Cupertino c’è molto più del centesimo e mezzo versato per ogni iPhone venduto in Europa.

Apple è presente in Irlanda da quasi 40 anni. Iniziò con una filiale a Cork, dove lavoravano ottanta persone che con gli anni sono diventate seimila. La settimana scorsa, dopo quasi quattro anni di indagini, la Commissione europea ha concluso che: 1) Apple ha beneficiato di un trattamento fiscale agevolato che, dai primi anni Novanta in poi, le ha consentito di pagare meno tasse rispetto alle altre imprese europee; 2) l’Irlanda dovrà recuperare almeno ciò che non gli è stato pagato tra il 2003 e il 2014: una cifra intorno ai 13 miliardi di euro, più gli interessi.

il Post 30/8;

 

Numerose le reazioni. La più perentoria: la decisione, ha fatto sapere il Tesoro Usa, «potrebbe minacciare gli investimenti americani in Europa». La più agitata: il ministro delle Finanze irlandese, Michael Noonan, ha detto di essere pronto al ricorso presso le corti europee: «Fare qualsiasi altra cosa sarebbe un suicidio». La più bizzarra: «Apple dovrebbe trasferirsi in Turchia. Saremmo felici di offrire incentivi fiscali più generosi. Non dovrebbe avere a che fare con la burocrazia Ue» ha twittato il vicepremier di Ankara, Mehmet Simsek. La più istituzionale: «Abbiamo recentemente pianificato ulteriori investimenti in Irlanda e i nostri piani non sono cambiati» ha detto Luca Maestri, cfo di Cupertino. La più agguerrita: il chief executive officer, Tim Cook, ha fatto una vera e propria chiamata alle armi, rivolgendosi alla «comunità Apple» e definendo la decisione della Commissione «totalmente una stronzata politica», «deludente» ed «esasperante».

Massimo Sideri, Corriere della Sera 30/8;

 

Entriamo allora in un Apple Store, in Italia. L’iPhone 6s Plus è in listino a 889 euro. Tolte spese di produzione (il costo di manifattura in Cina è stimato sui 20 euro) e Iva, nei forzieri di Apple ne finiscono più o meno 320. Di questi 320, quello che l’azienda americana paga in tasse, per cortesia del governo irlandese, è un centesimo e mezzo di euro. Perché le imposte sul reddito generato dalle vendite italiane Apple non le versa a Roma. I profitti, come quelli di tutta Europa, vengono quasi integralmente trasferiti in Irlanda attraverso delle tecniche di «transfer pricing» oppure fatturandoli direttamente nel paese (accade per esempio con le canzoni o le app che compriamo sullo Store digitale). Una volta in Irlanda la somma viene prima abbattuta, scalando gli investimenti in ricerca e sviluppo riconosciuti ad Apple Usa, e poi tassata. Riassunta in cifre: in Italia, dato 2014, Apple ha realizzato ricavi sopra il miliardo versando al fisco lo 0,42% (4,2 milioni di euro), e a Dublino, dove quei profitti sono stati dirottati, ha pagato lo 0,005% (cioè 50mila euro ogni miliardo di utile).

Filippo Santelli, la Repubblica 31/8;

 

Con la sua indagine, la Commissione Europea ha concluso che le due società controllate da Apple con sede in Irlanda (Apple Sales International e Apple Operations Europe) hanno prodotto ricavi «non corrispondenti alla realtà economica»: praticamente tutti gli utili derivanti dalle vendite segnati dalle due aziende erano attribuiti a un generico «ufficio centrale» che per la Commissione «esisteva solo sulla carta e non poteva generare quel tipo di profitti». Sfruttando questo sistema, e una serie di regimi fiscali agevolati previsti dall’Irlanda per attirare le multinazionali sul suo territorio (e da inizio 2015 in parte modificati in seguito alle pressioni della Ue), Apple ha potuto pagare dal 2003 al 2014 lo 0,005% a fronte di un’aliquota fiscale ufficiale sugli utili d’impresa irlandesi del 12,50%.

il Post 1/9;

 

Ed è grazie a questa differenza (12,50 meno 0,005) che Bruxelles, nella persona di Margrethe Vestager, commissario alla Concorrenza, dopo avere deciso che si debbano considerare «aiuti di stato» illeciti da parte di Dublino, vuole imporre ad Apple di pagare 13 miliardi di euro di arretrati. Vestager: «Questa non è una multa ma sono tasse non pagate, è una differenza molto importante. Personalmente mi sarei sentita in dovere di dare una seconda occhiata alla mia fattura fiscale se le mie tasse fossero scese allo 0,005%». Non era mai stato deciso un versamento di tasse non pagate di questa entità, quindi è un terreno nuovo per tutti. Il governo dell’Irlanda ora dovrà analizzare le accuse e le richieste della Commissione europea, poi Apple potrà fare altrettanto. Da quando riceveranno la documentazione ufficiale, avranno entrambi due mesi di tempo per ricorrere in appello. Dall’avvio del ricorso, potrebbe passare più di un anno prima della sentenza.

Massimo Sideri, Corriere della Sera 30/8;

 

È dunque la fine del giochetto fiscale del «double irish» di cui ad oggi beneficiano circa settecento aziende americane (che danno lavoro a 140mila irlandesi) e di cui Apple è stata una delle pioniere? Non è detto. Il tema è molto complicato da diversi punti di vista, a partire da quello fiscale e giuridico. In una lettera aperta pubblicata dopo la decisione della Commissione, Tim Cook ha contestato il metodo, ricordando che – giuste o sbagliate – Apple ha semplicemente applicato le regole in vigore all’epoca sulla tassazione e approvate dal governo irlandese. Cook dice che in Irlanda, come negli altri paesi del mondo dove è attiva, la sua azienda segue le leggi locali per il pagamento delle tasse dovute. È vero, ma analisti ed esperti concordano su quanto detto dalla Commissione europea a proposito del fatto che l’Irlanda abbia consentito ad Apple di stabilire quanto degli utili europei che confluivano nel paese dovessero essere riconosciuti e tassati, mentre tutto il resto finiva in controllate che non pagavano praticamente nulla di tasse. Quindi non è completamente vero che Apple «non ha beneficiato di alcun accordo speciale», come sostiene Cook.

The New York Times 31/8;

 

Dall’altra parte le regole del mercato unico europeo permettono ai governi di avere completa autonomia sulle loro politiche fiscali: possono decidere di abbassare le tasse alle aziende quanto vogliono – e non c’è un livello in assoluto giusto o sbagliato: sono scelte politiche – e possono decidere di farlo solo per alcune aziende (vedi per esempio gli sconti fiscali a chi investe nel Sud Italia), allo scopo di incentivarle a creare posti di lavoro e ricchezza. Come si sa, sono numerose le multinazionali che seguono politiche simili a quelle di Apple: chiedono regimi fiscali agevolati e in cambio offrono l’opportunità di ridurre la disoccupazione nei paesi in cui mettono le loro sedi, tema su cui i governi sono tradizionalmente molto sensibili.

il Post 1/9;  

 

Molti ritengono che la decisione della Commissione porterà all’avvio di verifiche fiscali nei confronti di Apple anche da parte di altri paesi europei, dove l’azienda vende i propri prodotti. Lo stesso documento invita gli stati membri a farlo, ma in realtà alcuni si sono già mossi, trovando accordi con Apple che implicitamente dimostrano l’esistenza di strategie fiscali creative per pagare meno tasse ma anche una volontà di Apple di collaborare e risolvere le ambiguità. Lo scorso dicembre, per esempio, Apple ha concordato il pagamento di circa 318 milioni di euro col fisco italiano, per risolvere una disputa legata proprio al pagamento delle tasse. Il Wall Street Journal ricorda però che sulla carta è più vantaggioso il recupero in un’unica soluzione dei 13 miliardi di euro: la maggior parte degli stati può esigere il pagamento di tasse non versate per pochi anni, mentre la Commissione, stabilendo che si è trattato di un aiuto di stato, ha potuto farlo per un periodo di dieci anni.

il Post 1/9;

 

Offeddu: «Nei tredici piani del palazzo dove ha sede la Commissione europea forse nessuno ha più potere effettivo della persona chiamata a vigilare contro le violazioni della libera concorrenza, gli abusi di posizione dominante sul mercato, gli aiuti di stato illegittimi: tutto ciò di cui l’Unione Europea va o dovrebbe andare fiera, e che si riassume nel concetto di “fair competition”, concorrenza leale. La danese Margrethe Vestager è appunto dal 2014 la custode dell’Antitrust, e lo scontro dell’Antitrust con Apple è solo l’ultimo in una serie di tenzoni miliardarie: da Google a Starbucks, dalla Disney a General Electrics, praticamente non c’è stato colosso al mondo – e soprattutto in America, dicono certi critici – che non sia incappato con alterne vicende nel setaccio di Bruxelles, e questo fin dai tempi di Mario Monti. Passato il setaccio nelle mani di Margrethe, nel 2014, lei si è acquistata subito fama di grande durezza nello svolgere il suo ruolo: “Totalmente sprovvista di sentimenti” (New York Times), “La donna che fa tremare l’Europa” (Le Monde)».

Luigi Offeddu, Corriere della Sera 31/8;

 

Apple è invece la società più ricca del mondo: nel 2015 ha prodotto ricavi per 234 miliardi di dollari e ha pagato complessivamente 19 miliardi di tasse. Plateroti: «Anche se nel peggiore degli scenari la Corte di Giustizia Ue dovesse confermare che la multinazionale americana deve restituire a Dublino 13 miliardi di euro di aiuti di stato indebitamente ricevuti, si tratterebbe poco più di un “buffetto” per un gruppo che ha in cassa oltre 232 miliardi di dollari in contanti, di cui circa 214 miliardi custoditi all’estero. E in ogni caso i tempi saranno lunghi. Ma a sgonfiare il caso-Apple non è solo l’entità della cifra o il merito. Il vero problema è che i mercati hanno perso la fiducia sulla capacità delle vecchie e delle nuove potenze economiche di dare risposte comuni, serie e creative a problemi all’apparenza locali ma sostanzialmente globali: si convocano vertici mondiali, riunioni multilaterali sotto l’ombrello del G20 o dell’Ocse, ma alla fine sono ancora i rapporti di forza a vincere sul campo».

Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 31/8;

 

Il caso della Apple è esploso tra l’altro proprio in coincidenza di tensioni anche più critiche e importanti, come lo stallo nei negoziati commerciali tra Usa e Ue e l’inizio di quelli per la Brexit. Ancora Plateroti: «Se il trattato Ttip rischia di saltare, non è solo perché l’America abusa del proprio ruolo e della sua forza politica, ma soprattutto per le divisioni tra i paesi europei e sul tentativo tedesco e francese di far prevalere i propri interessi su quelli dell’Unione. I mercati, come è chiaro, sono ormai pronti a chiamare il bluff sulle finte manovre coordinate, sui tentativi degli Usa (e della Ue) di convincere l’opinione pubblica che nella battaglia contro l’evasione non ci sono zone franche».

Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 31/8;

 

Mentre con la vittoria della Brexit nessun membro del blocco europeo ha una posta in gioco più alta dell’Irlanda che, se dovesse vedere fuggire le multinazionali (e i loro posti di lavoro) a causa del provvedimento della Commissione, potrebbe pensare anch’essa di uscire dalla Ue. Per questo l’isola guarda all’altra sponda dell’Atlantico. Per questo il governo ha resistito alle pressioni di altri stati europei sull’aumento dell’aliquota fiscale sugli utili delle società oltre l’attuale 12,5%. Nonostante l’Irlanda non sia ufficialmente un paradiso fiscale, la tassazione delle imprese straniere ha un grande impatto sulla sua economia. Nel 2015 la crescita è stata del 26%, almeno dieci volte maggiore che nelle altre economie sviluppate. E tutto grazie a una serie di «fusioni al contrario» (reverse mergers), in cui le aziende statunitensi si fondono con società basate all’estero per beneficiare di aliquote fiscali inferiori.

MilanoFinanza – The Wall Street Journal 1/9;

 

Ma Margrethe Vestager non è la persona giusta per i compromessi: secondo il Wall Street Journal, il caso Apple «è solo l’inizio» della nuova strategia che la Commissione Europea vuole seguire nei confronti delle aziende tecnologiche americane, che producono grandi ricavi in Europa, mantenendo buona parte dei loro servizi e centri dati fuori dal continente. Negli ultimi mesi le autorità di Bruxelles hanno avviato verifiche e indagini su molte società statunitensi, come Alphabet per la predominanza sul mercato del suo sistema operativo Android, dubbi sulla tutela della privacy da parte di Amazon e Facebook, nuove regole che potrebbero imporre a servizi come Netflix di finanziare produzioni televisive in Europa e ancora nuove regole per i motori di ricerca che mostrano anteprime degli articoli dei giornali (quindi Google) e sulla tutela della neutralità della rete.

MilanoFinanza – The Wall Street Journal 1/9;

 

Il Post: «La Commissione vuole regolamentare meglio la presenza in Europa delle grandi aziende tecnologiche, quasi tutte statunitensi, ma al tempo stesso dovrà fare in modo di non disincentivare investimenti e attività commerciali nel mercato europeo da parte delle stesse aziende. Il problema è che in Europa non ci sono società paragonabili a Apple, Microsoft, Google o Facebook, e per ora non ci sono nemmeno le condizioni perché possa emergere qualche concorrente credibile».

il Post 1/9;

 

Dalla Casa Bianca infine hanno fatto sapere che Barack Obama porterà il tema dell’elusione fiscale al G20. Per il Presidente americano la questione (non quella specifica di Apple, ma in generale) va affrontata e coordinata a livello globale. Trattandosi di un tema tecnico, certamente non c’è da aspettarsi chissà quale decisione dal vertice mondiale. Però il caso è destinato a segnare una svolta nei rapporti tra il capitalismo delle grandi multinazionali e le regole fiscali dei paesi in cui fanno profitti.

Marco Bresolin, La Stampa 3/9.

 

 

a cura di Francesco Billi

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