foto Benito Condemi de Felice via Flickr

Presto sposi

Roberto Volpi
Non sono così convinto che presupposti e implicazioni culturali dell’inverno della popolazione italiana siano così conosciuti come i suoi aspetti più strettamente demografici, ma indiscutibilmente il professore dell’Università Bicocca di Milano Gian Carlo Blangiardo ha ragione quando ci dice che, dopo la diagnosi, occorre “avviare la terapia”.

Non sono così convinto che presupposti e implicazioni culturali dell’inverno della popolazione italiana siano così conosciuti come i suoi aspetti più strettamente demografici, ma indiscutibilmente il professore dell’Università Bicocca di Milano Gian Carlo Blangiardo, dopo avere magistralmente sintetizzato quegli aspetti sul Foglio, ha ragione quando ci dice che, dopo la diagnosi, occorre “avviare la terapia”. Non vorrei però che lo “spettro d’azione” della terapia fosse troppo ampio, cosicché anche quand’essa è azzeccata produca risultati tutt’altro che risolutivi. Occorre mettere a fuoco. E il fuoco della terapia non può che essere uno: abbassare l’età media al matrimonio delle donne (quella degli uomini si abbasserà di conseguenza) di cinque anni, dagli attuali 32 anni ai 27-28 anni che ci si deve porre come traguardo. E non come traguardo da qui a cinquant’anni, ma da qui a 10-15 anni.

 

La popolazione femminile in età feconda si sta infatti drammaticamente riducendo, nonostante l’apporto di una più giovanile struttura per età degli stranieri regolarmente residenti in Italia, e sarà ancora peggio nell’immediato futuro. Dunque nasceranno ancora meno bambini anche se la fecondità femminile non registrerà ulteriori flessioni. Occorre assolutamente che nel futuro meno immediato, appunto, comincino a entrare in gioco classi più consistenti di donne in età feconda o non ci sarà più spazio per terapie di sorta.

 

Perché ciò avvenga è indispensabile che si innalzi la nuzialità, scesa a livelli non sostenibili, e che (ma è la stessa cosa, anche se non sembra) l’età al matrimonio faccia un balzo all’indietro, dopo quello in avanti – e di quanto – degli ultimi decenni. Tornare a un’età media al matrimonio di 24 anni della donna degli anni Sessanta non è pensabile. Tornare a un’età di 27-28 anni è invece fattibile. Deve essere fattibile, perché questa età è la precondizione senza la quale l’Italia non si schioderà dalla, demograficamente parlando, condanna del figlio unico.

 

E’ l’ora di parlarci fuori dai denti. Quella del figlio unico è una prevalenza che, di anno in anno, è capace di trascinarci filati alla tomba. E – a parte problemi di fecondità delle coppie, comunque da non sopravvalutare –  il figlio unico è legato a doppio filo all’età al matrimonio della donna. Se una donna (italiana) si sposa a un’età media di 32-33 anni, altrettanto mediamente farà un figlio, un solo figlio. Anche ne volesse un secondo incontrerebbe forti difficoltà, di tutti i tipi, a farlo. E invece il secondo figlio è la nostra sola àncora di salvezza perché se la norma non ridiventano i due figli non ci sono santi che possano proteggerci.
Dunque ecco la linea terapeutica: misure, misure precise mirate ad abbassare l’età al matrimonio delle donne. Cominciando dall’università. Dall’incredibile tendenza esattamente opposta a quella che sarebbe necessaria, e non soltanto dal punto di vista demografico, degli studi universitari a prolungarsi sempre di più nel tempo. E’ semplicemente folle, per non usare altri aggettivi meno garbati, che un medico specialista cominci a guadagnare a trentacinque anni. Che un avvocato, un ingegnere, un fisico possano sperare di avere una posizione professionale consolidata non prima dei trent’anni. Che nelle università si tiri la cinghia ben oltre questa soglia, prima di cominciare a intravvedere qualche traguardo. Un mondo letteralmente alla rovescia, e meno male che il mercato del lavoro ha cominciato a orientarsi energicamente in direzione dell’età di quanti escono dall’università, e non del pletorico e del tutto inutile voto di laurea, che non selezione più nessuno, dal momento che 22 laureati su cento si laureano addirittura con la lode.

 

Dall’inizio degli anni Duemila le donne che si sono iscritte all’università hanno rappresentato quasi il 60 per cento delle donne nate nel frattempo. Sono le donne che si sposano tardi, troppo tardi per mettere al mondo dei figli, ammesso che si sposino. Ecco, se non si vogliono fare discorsi a vuoto, impiegare terapie che non arriveranno a curare alcunché, è esattamente da qui, da questo nodo problematico, e culturale, molto culturale, che occorre partire: concentrando i programmi, accorciando i percorsi, avvicinando già dall’università il mondo del lavoro. I tempi dilatati di studio-lavoro ci hanno già rovinato abbastanza, per poterceli ancora permettere.

 

Nell’ambito della serie “New deal liberale” lanciata dall’editoriale del direttore Claudio Cerasa sono intervenuti finora l’imprenditore Massimo Blasoni (centro studi Impresa Lavoro), il sindacalista Marco Bentivogli (segretario generale Fim-Cisl), il demografo Gian Carlo Blangiardo (Università Bicocca)