Donald Trump (foto LaPresse)

La stretta via tra Cina e fisco

Su pil e occupazione c'è del metodo in Trump, giura il suo guru Navarro

Marco Valerio Lo Prete
Il curriculum pro business e anti Pechino dell’economista consigliere del tycoon. Citazioni reaganiane e rincorsa a Hillary

Roma. Ieri Donald Trump, parlando di economia al Detroit Economic Club della città del Michigan, ha provato a prendere di petto uno dei suoi momenti più difficili nella corsa verso le elezioni presidenziali del prossimo 8 novembre. Da una parte infatti ci sono le gaffe, come quella non ancora archiviata che era nata la scorsa settimana dallo scontro a distanza con i familiari musulmani di un soldato americano ucciso in Iraq. Dall’altra ci sono i candidati alla destra della democratica Hillary Clinton che iniziano di nuovo a moltiplicarsi, dopo che 16 di loro erano usciti con le ossa rotte dalle primarie ufficiali del Grand Old Party: crescono infatti i consensi, almeno sulla carta, del ticket libertario e terzista composto da Gary Johnson e William Weld, mentre nelle ultime 24 ore Evan McMullin, esponente repubblicano con un passato nella Cia, ha fatto capire di essere pronto a correre come candidato indipendente. Perciò ieri Trump ha scelto di precisare la propria piattaforma programmatica in campo economico, per ripartire da lì dove l’opinione pubblica gli riconosce ancora un qualche vantaggio sulla Clinton. Ha aggiustato il tiro rispetto alle proposte dello scorso autunno, giudicate troppo costose per le casse dello stato, annunciando comunque “la maggiore rivoluzione fiscale dai tempi di Reagan”. Ha detto che “anche i ricchi devono pagare il giusto, ma non bisogna distruggere la nostra capacità di competere e creare posti di lavoro”. Perciò “nessuna azienda americana pagherà più del 15 per cento di tasse. In altre parole, ridurremo le vostre imposte dal 35 al 15 per cento”. Per andare oltre il mero messaggio incarnato dal tycoon miliardario – una sorta di “I am the economy, stupid!” – il candidato repubblicano venerdì scorso ha costituito una squadra di tredici consiglieri economici. Soprattutto uomini d’impresa e della finanza. Tra quelli accademicamente più qualificati c’è Peter Navarro, da vent’anni professore alla Merage School of Business dell’Università della California-Irvine, anche se il suo dottorato a Harvard non lo rende il prototipo del cultore della scienza triste. Appassionato di geopolitica, Navarro si definisce “speaker dinamico” pronto a partecipare – ovviamente dietro compenso – a eventi pubblici e privati, e di Trump scrive e dice quello che quasi nessun osservatore scriverebbe e direbbe: quando parla di economia, Donald non è tutto chiacchiere e show, ma dimostra invece di avere del metodo. La prova di ciò, secondo il professore californiano, è nel nesso che il candidato repubblicano traccia continuamente tra ripresa americana troppo flebile rispetto agli standard del passato, sofferenze della classe media e squilibrio delle relazioni commerciali tra Stati Uniti e Cina.

 


Peter Navarro


 

La scorsa primavera Navarro, intervenendo sulla rivista National Interest, sostenne addirittura di scorgere quattro “leggi ferree” nei discorsi di Trump in materia di economia. La prima è l’idea di ristabilire “uno scambio commerciale in equilibrio” tra Washington e Pechino: questo è “il modo migliore per rendere l’America di nuovo grande, eliminando l’enorme deficit della bilancia commerciale che sta decimando la base manifatturiera del nostro paese e dissanguando i nostri lavoratori”. Seconda legge ferrea: “Esiste una relazione fondamentale tra il tasso di crescita americano e la sua capacità di creare occupazione. A spanne, per ogni punto di crescita che l’America perde in ragione del suo deficit commerciale con il resto del mondo, il nostro paese non riesce a creare 1,3 milioni di posti di lavoro aggiuntivi”. I deficit cronici fatti registrare dagli Stati Uniti nei confronti della fabbrica del mondo, la Cina, sarebbero costati 20 milioni di posti di lavoro a partire dal 2001, cioè dall’anno in cui la potenza asiatica è entrata a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). La terza legge ferrea della Trumpnomics è la conseguenza naturale di tutto ciò: “Se l’America vuole eliminare l’effetto frenante che il deficit commerciale comporta per la creazione di occupazione, essa si deve concentrare innanzitutto nel ribilanciamento del commercio con la Cina, e solo in misura minore con il Messico e il Giappone”.

 

“La migliore riforma del lavoro”, secondo Navarro e secondo Trump, è dunque la rinegoziazione degli accordi commerciali con la Cina. Se l’assunto appare troppo cervellotico, ecco che invece la quarta e ultima legge ferrea della Trumpnomics va dritta al cuore di milioni di americani. Riportare in equilibrio gli scambi tra Pechino e Washington non solo eliminerebbe una zavorra statistica che rallenta il pil, ma incentiverebbe con forza gli investimenti domestici americani. Una politica commerciale statunitense che avesse come priorità la messa al bando – attraverso sanzioni varie – dei sussidi cinesi alle esportazioni, delle manipolazioni del cambio, della contraffazione e più in generale delle pratiche di dumping consentite da una legislazione spericolata su lavoro e ambiente, renderebbe meno attraente la fabbrica cinese. Fonti dell’entourage di Trump, trincerandosi dietro l’anonimato, hanno detto che questa politica, in fondo, non è altro che un aggiornamento della “dura posizione” assunta dal presidente Ronald Reagan negli anni 80 nei confronti del Giappone, quella che portò alla firma dell’Accordo del Plaza del 1985 e alla rivalutazione dello yen.  

 

Inoltre, perché la cura funzioni davvero, le aziende americane dovrebbero contemporaneamente beneficiare – stando agli annunci elettorali di Trump e alla messa in prosa di Navarro – di un robusto taglio della tassazione che oggi le affligge.    

 

Ecco, in estrema sintesi, la ricetta che l’economista californiano e il candidato newyorchese sembrano condividere alla lettera, e non solo da venerdì scorso. Seguendo tale ricetta, si potrebbe ribaltare una tendenza ventennale – descritta ieri dallo stesso Navarro al Financial Times – che negli ultimi quindici anni ha visto crescere il pil americano a un tasso dell’1,8 per cento medio ogni anno, quasi la metà del 3,5 per cento fatto segnare dal 1947 al 2001. Un toccasana pro business e pro occupazione, insomma, e il tutto senza scomodare la retorica che piace di più ai democrat, quella fatta di “stagnazione secolare” e investimenti pubblici come cura inevitabile.

 

 

La smentita di Moody’s e un libro atipico

 

Già prima della settimana scorsa, il nome di Navarro aveva iniziato a essere sistematicamente associato a quello di Trump, almeno dalla fine di giugno. Allora infatti Moody’s Analytics aveva pubblicato uno studio, rilanciato da tutti i network d’informazione mondiali, nel quale si prevedeva una sorte di apocalisse economica nel caso Trump fosse arrivato alla Casa Bianca: recessione, nuova disoccupazione, debito pubblico alle stelle. Navarro, in 11 paginette, contestò il merito dello studio, e anche il metodo, svelando che il suo autore principale, Mark Zandi, era un democratico incallito e finanziatore della campagna di Hillary Clinton.

 

La simil-ossessione per la Cina, però, è il vero trait d’union tra l’economista e il candidato repubblicano. Navarro lo scorso anno ha dato alle stampe un libro sulla Cina un tantino atipico per un accademico, intitolato “Crouching Tiger. What China’s militarism means for the world” (Prometheus Books). Il testo, con annesse cartine geografiche disegnate dallo stesso autore e con il sequel in forma di documentario proiettato in decine di sale cinematografiche, è scritto a mo’ di lungo indovinello per il lettore. L’autore dissemina indizi sulla politica estera ed economica della potenza asiatica, esortando chi legge a prevedere da sé il futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Con una premessa che però già fa temere il peggio: la situazione attuale delle due superpotenze è riassunta infatti con l’immagine della “trappola di Tucidide”. Lo storico greco, nel suo capolavoro “La guerra del Peloponneso”, scrisse che “ciò che rese inevitabile la guerra fu la crescita della potenza ateniese e la paura che ciò ingenerò in Sparta”. La stessa paura che finora Trump ha compreso e maneggiato ad arte.

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