Storia della prima foreign fighter pentita ora pronta a tornare in Italia

Cristina Giudici
Meriem, 19 anni: di giorno faceva shopping con le amiche, di notte pianificava attacchi in nome del califfo. Parla il padre

Padova. La stanno aspettando. Nessuno dice dove né come potrebbe accadere, ma tutti stanno aspettando che riesca a scappare dalla Siria e a raggiungere la Turchia. Da quando nel febbraio scorso è trapelata la notizia che Meriem Rehaily, 19 anni, italo-marocchina, avrebbe chiamato i genitori per dire che voleva tornare a casa, dove è cresciuta, in un casolare nella campagna di Padova, è calato il silenzio. I Ros di Padova, che hanno avviato un’indagine dopo la sua scomparsa nel luglio scorso, preferirebbero che si diffondesse la notizia secondo cui la telefonata non è mai avvenuta, così da proteggere il riserbo sulle indagini e tentare di salvarle la vita, impedendo che i miliziani dello Stato islamico la puniscano o la uccidano per il suo pentimento, che non avrebbe dovuto diventare pubblico.

 

Ma siccome lei potrebbe essere la prima foreign fighter che torna a casa, in Italia, dove è arrivata dal Marocco all’età di nove anni, si può fare almeno un viaggio a ritroso per cercare di risolvere l’enigma. Quello di una giovane studente, per nulla disadattata, che troppo rapidamente si è radicalizzata ed è salita su un aereo l’estate scorsa per andare in Turchia e da lì raggiungere il Califfato. E quindi bisogna venire qui, nella provincia padovana, dove viveva con la famiglia, in un casolare isolato ad Arzergrande, con pareti gialle e finestre rosse, costruito da suo padre Redouane, che accetta di incontrarci. Ci addentriamo in una strada sterrata, circondata da campi coltivati, dove la mamma vive in attesa, straziata, con quattro figli e una bimba piccola nata due anni fa. Anche se lo sanno tutti che una volta rientrata non verrà accolta con le campane a festa, ma finirà in carcere perché ha commesso un reato di terrorismo.

 

Meriem non è una foreign fighter qualunque. La sua era una vita occidentale, su facebook appariva con i capelli avvolti in una treccia e lo sguardo aperto sul mondo. Le sue conoscenze della religione risalivano all’infanzia e ai viaggi estivi nel suo paese di origine. La sua migliore amica, Silvia, è cristiana, insiste il padre che, come tutti i padri dei giovani foreign fighters, si è chiesto troppo tardi cosa stesse accadendo nella testa di sua figlia. E non ha avuto il tempo di capire perché Meriem passasse intere giornate chiusa nella sua stanza, lei che era sempre stata solare, vitale, con tanti interessi e ambizioni. “Era sempre attaccata al suo cellulare, ma ogni volta che mi avvicinavo, cambiava schermata”, racconta al Foglio, implorandoci di non chiedergli di quella telefonata secondo cui avrebbe chiesto aiuto per tornare a essere ciò che era prima della partenza. O almeno questa è la speranza a cui lui si aggrappa.

 


Un combattente affilitato all'Isis


 

“Avrei potuto capire i segnali”, si lamenta il padre con uno sguardo tormentato come se fosse tutta colpa sua questa guerra dei terroristi islamisti che gli hanno portato via sua figlia. “Era diventata magra e silenziosa, aveva smesso di mangiare. Qualcuno le aveva fatto il lavaggio del cervello, ma io non ho capito”, spiega con rabbia e rammarico, lui che oggi le parla ad alta voce tutti i giorni, convinto che così facendo la terrà in vita.  E non riesce a rassegnarsi: Meriem parlava quattro lingue, a scuola andava benissimo. Non frequentava se non casualmente la moschea, eppure un giorno, il 14 luglio scorso, ha preso una borsa, infilandoci dentro solo qualche indumento, dicendo che sarebbe andata al mare con la sua amica Silvia.

 

E solo dopo un giorno, trovando il cellulare sempre spento e appurato che non era con la sua amica, Redouane – un corpo denutrito che tradisce il travaglio e le parole che rimangono sulin gola per timore di dire cose sbagliate – ha deciso di denunciare la sua scomparsa alla stazione dei carabinieri di Codevigo, dove nessuno vuole parlare di questa vicenda. In paese, il sindaco di Arzergrande, Luca Sartori, si limita a parlare bene del padre, che si arrabatta per mantenere la famiglia numerosa. Il municipio si trova di fronte alla fermata del pullman che lei prendeva ogni mattina per andare all’istituto professionale alberghiero dove studiava e dove poche settimane prima di partire lei aveva cominciato a parlare della guerra giusta da combattere in Siria in nome di Allah.

 

Ma si tratta di ricostruzioni fatte a posteriori perché nessuno  aveva notato il suo cambiamento, tranne l’insegnante d’italiano che aveva letto nei suoi temi le tracce della sua nuova fede appresa sul web, in quella zona grigia che si chiama in gergo tecnico dark web, dove pare sia stata reclutata da un algerino già intercettato dai servizi segreti in Spagna. Anche il parroco dice di non sapere nulla, e si limita a dare le indicazioni del casolare, dove vive la famiglia. A scuola gli insegnanti hanno ricevuto l’ordine di tacere e dicono con cortesia che preferiscono non dire nulla di lei e dei suoi scritti, che avevano tradito l’aspirazione alla guerra santa. A suo padre i carabinieri hanno promesso che se tornerà  non finirà in carcere. O almeno così dice lui, che si limita a raccontarci che Meriem era la figlia che gli assomigliava di più. Tenace, vivace, con una forte personalità. Battagliera, volitiva. Perché lei studiava sempre, frequentava il quarto anno di un istituto tecnico, indirizzo turistico, era un genio in matematica secondo le sue amiche, e in camera aveva un dizionario che prima dell’indottrinamento continuava a consultare per migliorare il suo italiano. E invece a casa è rimasto il fratello minore, Salah, sedici anni, con cui litigava sempre. “Erano come cane e gatto”, ricorda il padre: “Litigavano su tutto, fin da piccoli”.

 

Oggi, quando gli amici accennano a sua sorella, Salah si limita a guardare altrove, “quasi non fosse interessato al destino della sorella”, osservano gli inquirenti, ma chissà se è vero. Quel giorno in cui è partita, il 14 luglio, lei non ha detto niente. Non ha abbracciato i genitori, che la lasciavano libera di fare quello che voleva nel suo tempo libero, senza controlli né pressioni. Ha riempito una sacca e non ha guardato in faccia nessuno. Secondo gli inquirenti romani Meriem, che conosceva bene i codici del web, su Twitter era diventata “Sorella Rim”, mettendosi a disposizione per fare la cyber-jihad. A una sua amica avrebbe poi confessato e dimostrato di saper violare e decriptare i siti internet. Erano stati gli attivisti di Anonymus a scoprire la sua doppia identità pochi mesi prima della partenza, perché usava un account Twitter per cinguettare propaganda per lo Stato islamico. Ma ora ciò che conta è l’appello con un telefonino che non è il suo, in cui ha chiesto aiuto per tornare. Nessuno vuole confermare, nessuno vuole smentire, ma i dirigenti della Digos ne sono certi: “La stanno aspettando”, ci hanno detto. In ogni caso, il vero dilemma che nessuno ha saputo sciogliere fino a ora, nemmeno noi che abbiamo girato per due giorni nei luoghi in cui viveva, è quale sia stata la molla che l’ha spinta verso il Califfato.

 

I messaggi su Facebook contro l’occidente

Suo padre, per esempio, si chiede se sia stato quel momento di solitudine in cui la sua amica del cuore ha trovato un fidanzato e l’ha trascurata per dedicarsi alla sua passione. E si chiede se lei si sia trovata da sola e chissà se in quello spazio temporale, fra la scuola dove arrivava in autobus e la solitudine del casolare, abbia cercato di dare uno scopo alla sua vita. Neanche suo fratello, che frequenta un altro istituto professionale, aveva capito. Ora che i viaggi in Siria dei giovani immigrati di seconda generazione si sono fermati, papà Redouane continua  scuotere la testa e a dire che “lei non ha fatto niente, non è una terrorista, non è questa la sua strada”. Un uomo devastato dal dolore e apprezzato da tutti, dal sindaco e dal parroco, che simpatizzano con lui come se sua figlia fosse stata portata via da una brutta malattia o peggio da un orco.

 

Per nessuno, qui in paese, Meriem è una terrorista, nonostante nel suo ultimo post, prima di chiudere il profilo su facebook avesse scritto : “Basta stare a guardare, combattere in Siria contro gli oppressori occidentali. A voi fratelli musulmani”. I Ros, che avrebbero ascoltato la sua telefonata ai genitori in cui lei avrebbe detto di essersi sbagliata, di essere pentita, di voler tornare a casa, non sanno o dicono di non sapere se lei sia finita a fare la moglie di un jihadista o se – come lei sperava – abbia ricoperto ruoli importanti nella guerra informatica contro l’islam impuro e i miscredenti. Ciò che si sa è che ad alcune amiche con cui prendeva il pullman per andare a scuola ha cominciato a parlare della guerra santa. E che prima di partire aveva uno smartphone reso impermeabile a qualsiasi tipo di intercettazione. Di giorno frequentava le amiche, i compagni di scuola e faceva shopping con la madre in vista di una vacanza con la famiglia in Marocco, di notte – secondo gli investigatori – pianificava attacchi informatici e diffondeva messaggi di propaganda.

 

E’ nei mesi precedenti la sua sparizione che avrebbe redatto una “killing list” jihadista – sia pure in parte errata – con dati anagrafici, numeri di telefono e indirizzi di casa di dieci appartenenti alle forze dell’ordine “da uccidere”. Il dubbio degli investigatori è che Meriem possa aver fornito al suo reclutatore i numeri di telefono di coetanei della zona da assoldare alla causa. Si spiegherebbe così la testimonianza di una sua amica marocchina che ha raccontato di essere stata contattata via whatsapp da una persona che le avrebbe inviato una foto con un uomo che baciava una bandiera nera dello Stato islamico.
Suo padre ribadisce: “Io ci parlo in continuazione. Se smetto di parlarle, lei smetterà di esserci, ma Meriem tornerà, tornerà”, continua a ripetere come se stesse recitando un mantra. Ma la domanda vera non la se la pone nessuno qui: cosa è successo nel suo cervello? Perché Meriem non è stata la prima né sarà l’ultima a radicalizzarsi. Se si deve contrastare il germe del fondamentalismo islamista, bisogna conoscere bene quel tarlo che porta gli adolescenti immigrati di seconda generazione a combattere la guerra santa.