Stefano Di Michele in uno scatto di Francesco Billi

L'eterno sorriso di SDM

Stefano Di Michele
E' morto il più dolce e ironico dei giornalisti. Appuntò per il dopo: "Andare lassù sarà indimenticabile. La cosa più bella sarebbe incontrare persone. Ma gli esseri umani e gli animali che ho amato sono stati l'anticipo di Dio in terra"

Nel 2007 il Foglio chiese ad alcuni collaboratori e redattori di scrivere in quindicimila battute i propri "Appunti per il dopo". Il 18 luglio Stefano Di Michele scrisse i suoi.

 


 

L’ultima parola dell’ultimo messaggio del mio amico P. poco prima di morire (ma non sapeva di dover morire quel giorno, quando il cuore scoppiò di colpo, anche se parlava spesso di morire), fu: “Capiterà”. L’ultima parola dell’ultima lettera di Emily Dickinson, appena prima di entrare in coma, fu: “Richiamata” (forse evocava il titolo di un libro, forse un presentimento – ma questo non importa). “L’arrivo di un passo che entra leggero”, sempre. La mia amica A. mi chiese, mentre la guardavo per l’ultima volta in una stanza d’ospedale: “Perché?”. A. era una bella persona. Insegnante di francese in pensione, aveva un occhio di vetro come il tenente Colombo, curiosa e felice. Cucinava uova sode al forno col prezzemolo, chioccia e mamma di tutti i ragazzi comunisti della sezione. E leggeva Proust in francese, e parlava sempre di questo Proust francese, così un vecchio compagno chiese incuriosito: “Ma perché, in italiano non ce sta ancora?”. Andava avanti e indietro con la sua Panda bianca carica di gente e di problemi, a volte di una torta per la cena. Una mattina si accorse di non distinguere più il lato sinistro della strada da quello destro. Aveva qualcosa nella testa. La operarono. Lì in ospedale – con la sua piccola testa diventata un enorme capoccione, tutta fasciata e tutta color verde che sembrava ET, solo l’occhio di vetro brillava della stessa luce di una volta – mi domandò mentre uscivo per sempre dalla sua vita: “Perché?”. Mio padre, invece, disse a mia madre: “Vado a dormire”, senza fare alcuna domanda.

 

Un peccato non avere la certezza di poter scegliere la nostra ultima parola. A questo, basta il caso. Che a volte  si fa metafora di quel che segue – o solo dell’attesa – a volte semplice ricordo. Spesso significano niente, le ultime parole. Ma ci si torna sempre con la memoria, e sempre immaginando cosa volessero dire. Però: o si lascia una lettera prima del suicidio o si fa testamento. Non di quelli solo notarili, che magari poi l’ultima parola è “cancelleria”, e hai voglia ad immaginare qualcosa intorno alla parola “cancelleria”. Una volta altrove (se uno accetta l’ipotesi che Emily Dickinson potesse sbagliarsi:  “Nessuna parte della mente è immortale. Questo spaventa chi è felice, ma consola chi non lo è” – ma Emily Dickinson può sbagliarsi mai?), di sicuro mi verranno in mente tante parole che non ho detto a chi aspettava: dell’amore, della gratitudine, del riso, della paura… L’errore di tutte le vite: parole che non dovremmo mai mettere da parte, perché poi si perdono per sempre, non si possono più usare, e allora puoi urlare quanto vuoi dal posto dove sei finito. Pensarci per tempo, non dare per sicuro che le persone amate sappiano da sole quello che dovevi dir loro, e di come, finché è durata, è stato bello perché c’erano loro. Sarò stupito, certo, e impaurito, nel ritrovarmi da quelle parti. Confuso e grato. Non sono un buon viaggiatore, piuttosto pessimo: penso a quando tornerò anche prima di partire, e se sono altrove ho voglia di tornare, stazioni e aeroporti come luoghi del disagio. E quell’ultimo, come viaggio, essendo definitivo sarà  piuttosto impegnativo. Non mi spaventa tanto l’idea di un posto sconosciuto – non andando mai da nessuna parte, difficilmente posso incappare in un posto conosciuto – quanto l’assenza di qualsiasi idea di come questo posto potrebbe essere.

 

Uno sa benissimo perché non va in Patagonia o in Egitto o magari a Sorrento: può non amare il vento o i faraoni o il limoncello. Ma del paradiso (perché di quello stiamo parlando: del paradiso, ché svuotato l’inferno e abolito il limbo, dove altro si potrebbe finire?) che diavolo – cioè, che cavolo – sappiamo? Per non dire di Dio – anzi, poi diciamo. Per farsi un’idea di questo benedetto paradiso non bastano né Dante né Milton, tutto resta sempre un po’ approssimativo, nuvole vaganti a casaccio, sbuffi di fumo, angeli in ogni dove (che poi che ci fai, con tutti questi angeli?). Per quanto possa sforzarmi, il pensiero va sempre al mirabile Totò di “47 morto che parla”, quando gli fanno credere di essere finito nell’aldilà: vampate di fumo, nuvole, angeli, morti variamente assortiti. Preciso così. All’asilo, suor Serafina e suor Gioia, per la festa della mamma, appositamente organizzata in paradiso, ci vestivano da angeli con lunghe tonache celesti e ali dorate, tra nuvolette di cartone. Duemila anni, e lì siamo. Lo stesso, la cosa più bella lassù sarebbe incontrare persone. Quelle che abbiamo amato e quelle che abbiamo sempre sognato di vedere. E allora chiedere a P. come andò che il suo cuore scoppiò, ad A. se ha avuto da Dio risposta alla sua domanda, a mio papà se si accorse di un sonno che non finiva più, o trovare il fratellino morto quando aveva un anno, che  non ricordo affatto, di lui né pianto né sorriso, solo la sensazione di un fruscìo rapido e vicino.

 

Poi magari la Dickinson, che chissà se è diventata più ciarliera di quando era in vita, e sentirle ripetere di come la stupidità sia peggiore del dolore (cosa che, tra l’altro, bisognerebbe sapere in terra: in cielo, chi deve lo sa benissimo da solo). O Jorge Luis Borges –  che vecchio voleva vivere più leggero di come aveva vissuto, ma ormai era tardi,  “vedete, ho ottantaquattro anni e so che sto morendo”: davvero c’è un tempo per tutto – andare cieco col suo bastone (in paradiso uno sbatte da qualche parte?). O Elias Canetti, che odiava così tanto la morte da cercare di afferrarla alla gola per tutta la vita. O Natalia Ginzburg, che su un divano di Montecitorio mi diceva: “E’ proprio così: dire che Dio non c’è, soprattutto a un bambino, è crudele” – e uno ha dentro quella breve frase, così sempre e per sempre se senti dire: “Dio non c’è”, pensi che siano parole crudeli. O sapere dal professor Caffè dove si nascose a morire. O Anna Maria Ortese, che sulla terra ha inseguito lo sguardo della Tartarughina del Levante, e cercato la cagnolina Laika mandata nel nulla dagli uomini di cui si era fidata. “Torna”, le diceva, e perdonaci.

 

A volte qualcuno si fa domande che nessuno capisce, e magari in paradiso saranno semplicemente sensate. E vedere quell’infinità di “morti in dolore”, con sopraffazione, e se loro hanno trovato risposta o  giustizia o almeno consolazione – alcuni hanno visto così tanto nella loro vita, tanto male “sotto il sole”, mangiato la terra per fame che si diventa matti per il dolore, e allora di cos’altro si può aver paura? Di Dio, forse? Purtroppo, non una parola di miliardi di parole aiuta a capire. Avremo una preghiera adolescenziale, per alcuni banale, di quelle che hanno portato lacrime – benedetto De Andrè: “Dio di misericordia/ il tuo bel Paradiso/ l’hai fatto soprattutto/ per chi non ha sorriso/ per quelli che han vissuto/ con la coscienza pura/ l’inferno esiste solo/ per chi ne ha paura”. Sembrerà un luogo un po’ più necessario.   

 


Poi, Dio. Se del paradiso sappiamo poco, di Lui ancor meno. Migliaia di anni che menti eccelse o eccelsi farabutti gli ronzano intorno, bivaccano i “beoni della morale” sulla possibilità della sua (in)esistenza, e notizie certe zero. Forse Dio è “occupato come al solito” – secondo il sospetto avanzato da Mafalda, la bimba inventata da Quino – per darne. Ma forse Dio è quello de “L’eterno sorriso” di Par Lagerkvist, un vecchio svagato, confuso e incerto, che alle anime che gli chiedono: perché questo?, non sa cosa rispondere,  solo ripete: io non volevo questo. Un Dio umano, che ha confuso gli uomini e si è confuso con essi. Non mi dispiacerebbe trovarlo così, il mio Dio. Fatto a immagine dei suoi uomini, carico delle loro debolezze, più che questi a sua immagine. Da bambino, don A. mi spiegava che Dio è l’essere perfettissimo, Creatore e Signore ecc. ecc. Buono, buonissimo. Come se non bastasse, onnipotente. “E che significa, don A.?”. “Che può tutto”.  Io sommavo: è perfetto, è buono, può tutto. “Don A., se può tutto perché i bambini muoiono di fame e ci sono le guerre?”. Don A. aveva saldissima fede, ma risposte non molto articolate. “Ciò fa parte del disegno im-per-scru-ta-bi-le di Dio!”. Quella parola sapeva di mistero, tutta maiuscole: IM-PER-SCRU-TA-BI-LE!. “Che vuol dire, don A.?”. “Che non lo possiamo vedere”. “Perché?”. “Perché è la volontà di Dio”. Mah. Però se Dio non lo vedi è un problema: come fai ad amare, e a spiegarti l’amore,  chi non puoi vedere e accarezzare?

 

Andare lassù sarà indimenticabile anche per questo: scrutare ciò che era imperscrutabile. Trovare la risposta. Il senso. La figura stessa. Un vecchio con la barba, come nel libro del catechismo? Ma se è eterno, quando è diventato vecchio? Si potrà domandare, magari. Perché più di tutti fanno ridere quelli che,  alla domanda se credono o no, rispondono: sono alla ricerca. Che vuol dire: sono alla ricerca? Sembrano gli intervistati dai tigì all’inizio dei saldi: sì, sono alla ricerca – di una gonna; sì, sono alla ricerca – di un paio di braghe. Di Dio ognuno sa poco, e certo non ne sanno di più quelli che mostrano tanta confidenza terrena con lui, ma c’è da dubitare che gradisca  questa petulante assillante inutile divinazione. “Nulla è più noioso dell’essere adorato. Come fa Dio a sopportarlo?”, è la buona domanda di  Canetti. Magari non lo sopporta, solo lascia correre, ché contro la peste dell’eccesso di zelo manco Lui può più qualcosa. Imperscrutabile, ma indispensabile: così penso Dio. Pure un po’ indifeso, assediato da scocciatori e scrocconi. Ma non sono mai riuscito a spiegarmelo bene. Da qualche parte una volta ho letto una frase di san Martino. Diceva: “Ci sono esseri attraverso i quali Dio mi ha amato”.

 

E’ la più bella definizione di ciò che fa Dio: trasformare in divino l’amore che riceviamo dalle creature terrene. Gran bella occupazione.  E in paradiso verrà da pensare che san Martino aveva ragione – se ci s’incontra bisognerà dirglielo – perché anche lì cerchiamo con lo sguardo gli sguardi che in vita ci sono apparsi divini, e mentre rimiriamo il volto di Dio (attività che in terra veniva presentata come principale, in paradiso), in realtà pensiamo a quelli lasciati laggiù, e sono quelli che più ci mancano. Questo è Dio? Certo, potrebbe. E se è Dio, per prima cosa da Lui rivorrei i gesti di tutte le persone amate – quelle che da vivi ci hanno aiutato a cominciare a pensare il bene – ma né più sagge né migliori: uguali. Però resta un dubbio lo stesso. Così lo esprimeva Emily Dickinson: “Una volta chi moriva/ sapeva dove andava –/ Si andava alla destra di Dio –/ Ora però questa mano è amputata/ e Dio introvabile –/ La rinuncia alla fede/ fa assumere atteggiamenti meschini –/ Meglio un fuoco fatuo/ che l’assenza – completa – di luce”. La mano di Dio, quella che aspettiamo di sentire sul viso e che tarda, che scompare e se torna trema. “Troppo tempo la Sua mano ha impiegato per raggiungere la fronte dell’uomo. Quando finalmente si è posata era fredda come un pesce”, scrisse Stig Dagerman, che quella mano attese invano.

 

Toccherà morire, per arrivare a sciogliere il dubbio. Non è una bella cosa, morire. Succede perché i battiti finiscono, perché il dolore toglie aria, perché ci sono gli occhi nel vuoto. Per stanchezza, quando non sentiamo più neanche la nostra voce. Per malattia, per caso. Perché non attendiamo più nessun “ospite dal futuro”, come faceva Anna Achmàtova. Valeva la pena esserci. Ma ecco, siamo morti. E adesso? Questa faccenda della resurrezione della carne (vista poi da un quasi vegetariano), non è facile da capire. Magari sarà come dice la Bibbia, “la terra darà alla luce le ombre”, e si ricomincerà, ma lo stesso è faticoso comprendere. Risorgiamo come? Come quando siamo morti? E se uno era artritico e novantenne, si fa tutta l’eternità piegato a novanta gradi? Nessuno lo dice con precisione. Se si deve fare, si faccia perbene. Per dire: il Signore certamente vorrà provvedere per una folta capigliatura al Cav., che mica può girare per l’eternità  con la bandana sulla zucca. Ecco, chi sceglie con che carne farci risorgere? Questione im-per-scru-ta-bi-le, pare, ma di cui incuriosirsi. Come risorgeremo, dunque? La fede aiuta, il fidarsi troppo rende incerti.

 

Saremo in ogni modo con lo stupore negli occhi: Dio, il paradiso, noi  come eravamo (più o meno). E hai voglia di guardarti in giro, di andare senza meta, di stancarti e di riprendere, di cercare chi credevi perduto per sempre. Non per fare il paradiso troppo simile alla pubblicità di un caffè, ma ci saranno sedie e panchine (Natalia Ginzburg pensava di dover portare nell’aldilà una sedia di paglia della sua cucina), e alberi, si spera – ché poche cose al Signore sono riuscite bene come gli alberi. E gli animali. Qui si è sempre vaghi in maniera inquieta. Dove andranno, nell’aldilà, i miei gatti Borges e Camilla? Sicuro che si sono meritati un paradiso, dove li metteranno? A me piacerebbe stare con loro, concedergli di far fuori i divani celesti come quelli di casa, e chissà come bisognerà fare con i croccantini. Perché se in paradiso non ci sono i gatti (e magari ci sono i cacciatori e i cristiani rinati), a me mica interessa molto andarci. Non vorrei che da quelle parti funzionasse come in certi locali dove mettono il cartello: “Io aspetto fuori” – ci vanno a volte tipacci con brutte facce abbronzate artificialmente. Ma l’Ecclesiaste, e lo ha ricordato monsignor Ravasi in un recente saggio, soccorre. “Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un unico soffio vitale per tutti.

 

Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. Chissà se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra?”. Carta canta: passano in paradiso Borges e Camilla, Rex e Rin Tin Tin, l’asinello della Bersagliera in “Pane amore e fantasia” e la Pantera Rosa. Così il mio amico P. ritroverà la gattina Brigì, che scomparve quando il suo cuore finì in pezzi e andò prima di tutti a cercarlo. Per me Dio riderà delle sue creature e di quanto sono buffe – come gli saranno mai venuti in mente, gli scoiattoli? e la meraviglia dei cervi? E se dovrà incazzarsi – nell’Antico Testamento è davvero di cattivo umore – lo farà con gli stronzi e i cattivi – chissà come gli sono scappati. E sarà consolante la faccenda del Giudizio Universale – giustizia resa, l’ira di Dio per ciò che è stato fatto alle sue creature – altro che i fanatici che lo raccontano intento alla contabilità delle seghe altrui.

 

Ma un testamento completo deve includere la fine che faranno i beni del defunto. Occasione per sfuggire le cento corde intorno al collo. Non i legami del sangue, ma quelli del cuore sono fondamentali – e forse ci guadagnano il paradiso. Ciò che abbiamo scelto, o da cui siamo stati scelti. Loro – quelli che sono stati visibili mentre il resto era imprescrutabile – dovranno avere ciò che di più importante resterà dopo di noi. Un  gattino cieco che una sera ti ha fatto piangere di felicità solo perché esisteva e ti cercava. Una bimba dal buffo soprannome, “il mio nome fa un po’ ridere/ ma voi riderete per quello che farò”,  giunta per caso nella vita e poi per caso nella tua vita, che un giorno ti ha insegnato quanti verdi ci sono in una foglia.  Un essere speciale che portò una musica: chi dorme con un aforisma di Canetti in testa, chi vai a cercare perché hai bisogno della sua presenza, chi recò in dono un quaderno bianco da riempire di segni, chi sa che comunque, già adesso, “non c’è un giorno in cui non passiamo un istante in paradiso”.

 

Esseri speciali, evocati da san Martino, anticipo di Dio – se Dio sarà capace della loro altezza. A loro ciò che ci ha creato: i libri più letti, certa musica che ci abita dentro, le sere cariche di parole, i giorni di luce, la stanza colorata, gli oggetti amati – il grande piatto col grande uccello blu cobalto – qualunque cosa contenga un riflesso di ciò che siamo stati per loro. Gli amici che hanno fatto argine alla tristezza. Cicatrici di vecchi amori. I soldi sono meno importanti, un po’ sporchi. Lasciarli in mani oscure e sicure, usarli  per provare a placare qualche inutile dolore. Poi andare di là – scomparire, aria o polvere o solo voce – e presentare il rendiconto al Creatore. Che certo non metterà nella colonna dei debiti eterni l’amore dato più alle sue creature che a Lui. Perché loro erano Lui. E Lui, si sa, è geloso, ma di sicuro non è meschino.