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Ci scrive l'ex capo dei servizi

I misteri di Regeni spiegati con i nuovi regolamenti di conti tra fazioni d'Egitto

Mario Mori
Il linguaggio dell’intelligence ci aiuta a leggere cosa c’è dietro l’incomprensibile atteggiamento delle autorità egiziane. La verità solo dopo la vittoria.

La tragica fine di Giulio Regeni ha colpito la sensibilità  della pubblica opinione italiana per le atroci modalità delle torture subite dal nostro giovane connazionale, ma ha provocato anche stupore e sconcerto per l’incomprensibile atteggiamento delle autorità egiziane, incapaci persino di escogitare una appena credibile ricostruzione dei fatti che consentisse loro, in qualche modo, di “salvare la faccia” di fronte alle doverose richieste di verità che provenivano non solo da una famiglia angosciata ma anche dal nostro governo. La vicenda ha provocato una crisi politica tra Italia e Egitto il cui iter dipenderà dai prossimi sviluppi del confronto tra le rispettive magistrature impegnate nel caso. Allo stato appare difficile pensare che tutto possa essere concluso con piena soddisfazione da parte italiana e i fatti, di conseguenza, resteranno per molto tempo a pesare sulle relazioni diplomatiche tra i due stati. Nessuno restituirà all’affetto dei suoi cari Giulio Regeni, ma oltre a questa drammatica constatazione un osservatore distaccato dei fatti non può che chiedersi il perché di un atteggiamento egiziano che, all’apparenza, appare cervellotico. Vediamo allora di cercare una spiegazione. Giulio Regeni arriva in Egitto con un incarico di ricerca sui sindacati locali conferitogli dall’Università di Cambridge. Da studioso serio cerca di capire la realtà che deve analizzare e ovviamente prende adeguati contatti per assolvere al suo compito. Questo è il punto di svolta.

 



 

Il contatto cioè con i sindacati liberi avvenuto sembra l’11 dicembre 2015. I sindacati in questione sono espressione dell’opposizione politica che fa comunque capo alla Fratellanza musulmana, movimento che, a seguito della caduta del regime del presidente Hosni Mubarak travolto dal ciclone delle “primavere arabe”, aveva ottenuto democraticamente il potere nel corso del 2012.

 

Il successivo colpo di stato del luglio 2013, diretto dal generale Abdel Fattah al Sisi, ha deposto il presidente eletto Mohamed Morsi e instaurato un regime di tipo militare, come nella ricorrente tradizione storica egiziana che vede le Forze armate determinare costantemente le vicende politiche della nazione.

 

Gli ambienti rifacentisi all’opposizione, in un regime assolutistico, sono sempre oggetto della massima attenzione e certo il sindacato libero è un obiettivo di primo piano delle varie componenti dell’intelligence egiziana, per il diretto rapporto che vanta con le masse dei lavoratori che costituiscono la parte attiva e più politicamente vivace del paese, in particolare in una nazione con scarse tradizioni democratiche.

 

I contatti di Giulio Regeni negli ambienti sindacali hanno senz’altro suscitato l’attenzione e l’interesse sia delle persone da lui incontrate che da chi quelle stesse persone stava controllando. Si tenga conto con quanta facilità e naturale sospetto sia notata in un paese musulmano l’attività di un occidentale, in particolare in un ambiente politicamente connotato e nel contesto di una situazione, come quella attuale dell’Egitto, dove il confronto politico tra le parti è al limite della guerra civile e la violenza è all’ordine del giorno. La presenza di un europeo, per alcuni comunque un “crociato”, non poteva sfuggire a nessuno e la volontà di conoscere i motivi di questa presenza hanno spinto qualcuno a chiederne conto a Giulio Regeni, purtroppo con i metodi e le tecniche aberranti proprie di un certo modo di fare indagini che ancora sopravvive in molti paesi. L’incarico che lo stagista italiano stava svolgendo non poteva sembrare credibile a chi è abituato a situazioni più semplici, scontate e inserite in un contesto di tragica quotidianità e dove il valore di una vita, per di più di un occidentale, non vale molto. Da qui le lunghe giornate di tortura senza esito perché nulla poteva confessare Giulio, sino alla morte che ha comportato la necessità di sbarazzarsi di un povero corpo divenuto ormai ingombrante.

 

Proprio il suo abbandono sul ciglio di una strada frequentata appare però l’aspetto più significativo che forse sta a spiegare i comportamenti successivi delle autorità preposte al caso. Normalmente infatti, nelle vicende non rare di sparizioni di persone, il cadavere svanisce nel nulla, il più delle volte ingoiato dalle sabbie del deserto che magari lo fanno ritrovare casualmente dopo decine di anni. Invece in questo caso il corpo del ragazzo italiano si è rapidamente materializzato. Probabilmente perché doveva essere trovato e diventare strumento di regolamenti di conti che sono in atto nei centri del potere egiziano.

 

Come ogni regime la struttura dominante al Cairo non è monolitica ma articolata in più fazioni. Al Sisi da tempo ha assunto una linea che in politica estera si appoggia all’Arabia Saudita e ai suoi generosi aiuti economici, divenuti vitali dopo i significativi disimpegni americani. Nella crisi libica il generale sostiene il governo di Tobruk, contro la fazione salafita che comanda a Tripoli appoggiata dalla Turchia e dal Qatar. Sicuramente nei centri di potere egiziani la politica di al Sisi trova oppositori sicuri di ottenere dall’estero forti sponsorizzazioni. Ovvio che queste divergenti tendenze   contino sul contributo di aliquote consistenti dei vari servizi d’intelligence, da sempre strumento indispensabile per fare politica nel paese. Il rapimento di Regeni è da attribuire con molta attendibilità a un momento di queste lotte intestine.

 

Il caso avrà probabilmente una spiegazione credibile solo quando questo braccio di ferro tra fazioni troverà la sua conclusione con la vittoria definitiva di una di esse. Purtroppo questa è, allo stato, la soluzione più prevedibile.

 

Un ultimo aspetto di questa tragica vicenda va infine valutato. Certe università europee, che disponendo di fondi cospicui impiegano giovani ricercatori nell’analisi di fenomeni e problematiche attuali e delicate, dovrebbero considerare con attenzione ogni singola situazione prima di inviare i loro stagisti in paesi dove fasi politiche esasperate li possono esporre a situazioni difficili se non a rischi gravi.

 

Poiché per università di grandi tradizioni non si può certo considerare come giustificazione l’ignoranza in merito alle vicende di determinate nazioni, resta l’ipotesi di una valutazione fatta superficialmente, e il fatto è comunque grave.

 

A meno che non si tratti invece di una scelta frutto del consiglio di altre istituzioni che, interessate a conoscere determinate situazioni, sollecitano l’impiego di giovani preparati ed entusiasti per iniziative formalmente ineccepibili, ma sottese da interessi particolari che se fossero condotte col marchio di uno stato o di un’impresa darebbero luogo a rifiuti o critiche ma che invece sotto la copertura di apprezzate attività di studio passano normalmente inosservate  e producono ottimi risultati di ritorno.

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