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Islamiche evasioni

Cristina Giudici
Viaggio tra i detenuti musulmani in Italia. Perché aumenta la radicalizzazione, come si monitora e si combatte. Storie inedite e numeri poco pubblicizzati.

L’ultimo è stato un macedone, Vulnet Maqelara, alias Karlito Brigante, arrestato alcune settimane fa a Roma. Aveva cambiato nome in omaggio al protagonista del celebre film “Carlito’s way”, uno spacciatore portoricano, la cui aspirazione al paradiso era però molto terrena. Radicalizzato nel carcere di Rebibbia da un tunisino diventato poi mujahed (cioè combattente) dello Stato islamico. Il fenomeno della radicalizzazione in carcere è diventata una faccenda dannatamente seria. E non solo perché le cellule che hanno colpito negli scorsi mesi Parigi e poi Bruxelles erano formate soprattutto da ex delinquenti votati al jihad o perché Salah Abdeslam si era radicalizzato in carcere, ma anche perché in Italia il monitoraggio sistematico avviato dall’intelligence penitenziaria, dal 2008 in collaborazione con il comitato di analisi strategica dell’Antiterrorismo, il C.a.s.a, dimostra la stessa tendenza: ora la minaccia viene dalle celle, dove vivono in promiscuità i delinquenti comuni.

 

I detenuti condannati per terrorismo internazionale e ristretti nella sezione di alta vigilanza del carcere di Rossano Calabro sono un piccolo gruppo: 22. Di loro si sa tutto, comprese le loro preghiere fanatiche per ringraziare Allah nei giorni delle stragi compiute in Europa. Ciò che invece non si conosce, o si teme di non riuscire a contrastare in modo efficace, è la miscela esplosiva che si sta innescando nelle sezioni dove transitano i detenuti per reati minori legati soprattutto allo spaccio di droga: ansia di riscossa, voglia di purificarsi da una vita vissuta violando le legge di Allah, rabbia e desiderio di vendetta possono favorire processi di radicalizzazione molto veloci e difficili da controllare. Che spesso coinvolge anche detenuti italiani convertiti. Al punto che al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la linea adottata è quella di non far trapelare fino a che punto si sia diffuso il fenomeno perché, come dimostra l’allarme segnalato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e dal sottosegretario alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti, Gennaro Migliore, è impossibile tracciare i movimenti e ascoltare le parole nei vari dialetti arabi di 10.500 detenuti musulmani, di cui 7.500 osservanti della loro religione. Ieri Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, ha comunicato a Repubblica un altro “dato allarmante”: “La metà dei reclusi nei penitenziari minorili italiani è musulmana. In cella ci sono circa cinquecento ragazzi, abituati a stare su internet come tutti i loro coetanei. E per questo possono facilmente entrare in contatto con i siti che predicano il jihad: sono a rischio altissimo di radicalizzazione”. 

 

Secondo la Digos in Lombardia, le segnalazioni sulle radicalizzazioni negli istituti penitenziari sono già aumentate. E non solo riguardo ai carcerati che si lasciano crescere la barba o nelle conversazioni inneggiano allo Stato islamico, ma anche nei confronti di chi va oltre e magari ritaglia un giornale, sottolinea il nome di un integralista e ci mette di fianco una sura del Corano e comunica con l’esterno. Oppure si fa portare in carcere testi fondamentalisti. Al Dap si stima siano 350 i detenuti monitorati per questa ragione, ma il numero è più alto perché è difficile stabilire il confine fra chi improvvisamente osserva rigidamente le prescrizioni coraniche e chi è in fase di radicalizzazione. Perché se un detenuto arriva a dire – come è successo nei corsi organizzati di cultura araba da frate Ignazio De Francesco nella biblioteca del carcere bolognese Dozza per cercare di smontare i dogmi dell’integralismo galeotto attraverso lo studio comparato delle costituzioni arabe e delle tradizioni islamiche – che persino vendere droga a un miscredente è un atto di jihad, allora il rischio è più esteso di quanto si immagini. E forse non è sufficiente l’impegno sistematico avviato dal consiglio ispettivo del Dap di fare un monitoraggio su larga scala. Anche se, come ha scoperto il Foglio, nell’arco di dieci anni, sono stati 50 mila i detenuti “attenzionati” a rischio di radicalizzazione. Ecco perché sono aumentati i corsi dedicati agli operatori del carcere e gli agenti penitenziari per aiutarli a decifrare i segnali che indicano la radicalizzazione. E non solo quelli esteriori, come ci ha spiegato un funzionario del Dap che per anni ha monitorato il fenomeno. “Non è sufficiente osservare chi si fa crescere la barba, diventa rigido e ostile alle istituzioni, si chiude a riccio, isolandosi dal resto della comunità carceraria, e passa le sue giornate a parlare di religione e di politica. Bisogna conoscere i simboli, le numerose sigle delle varie formazioni jihadiste, le scritte in arabo che appaiono in cella, i codici che indicano la radicalizzazione avvenuta”.

 



 

“In carcere le dinamiche sono diverse. Assomigliano a quelle della criminalità organizzata. Si fa qualcosa per ottenere qualcosa. Ci si inserisce in un circuito per offrire dei servizi in cambio di protezione”, ci dice una nostra fonte al Dap, dove è stato deciso di vietare alla stampa gli ingressi in carcere nel giorno della preghiera collettiva. Il fenomeno è tanto più preoccupante perché poi chi si radicalizza si mimetizza, smette di esternare le sue convinzioni e lavora nell’ombra. Ed è solo attraverso un lavoro di mediazione culturale che a volte si riconoscono i sintomi della malattia.

 

A spiegarcelo è un ex detenuto, ex corriere di droga, che ha frequentato anche le galere francesi. Samad Qanna oggi è fuori dal carcere, lavora e si sta laureando in Giurisprudenza. Protagonista di un documentario di Marco Cantarelli girato nel carcere bolognese, ci ha raccontato come si crea il fenomeno della radicalizzazione. “Quando si entra in carcere ci si divide per ‘mestiere’. Chi fa rapine si aggrega ai rapinatori, chi spaccia o fa il corriere della droga idem”, dice Samad al Foglio. “Si perdono i contatti con la propria comunità religiosa che giudica severamente chi commette reati e ci si allontana dalla famiglia. E allora i carcerati più vulnerabili diventano facile preda di chi fa proselitismo. Tutto accade quando si comincia a marcare la separazione fra noi, detenuti e vittime, e loro, le istituzioni, la società esterna, considerate responsabili della nostra emarginazione. E quando la contrapposizione fra noi e loro si acuisce, la rabbia cresce insieme al desiderio di vendetta. E ci si mette al servizio di qualsiasi progetto violento. A volte può essere solo di un’organizzazione criminale che offre protezione e supporto anche all’esterno. Ciò che importa è una cosa sola: vendicarsi. E quando, come accade più sovente ora, l’ansia di riscatto e di vendetta si mescola alla religione, a un’interpretazione grezza del Corano, ci si avvia verso la radicalizzazione. Del resto basta studiare le statistiche europee: la maggioranza degli integralisti viene dal carcere. Sono piccoli criminali. Non è una novità. Del resto non è stato un detenuto anche al Baghdadi?”, osserva Samad. “La rabbia che si trasforma in odio religioso è come un virus che si contagia con molta rapidità. Magari il seme della radicalizzazione non sedimenta subito. E’ un pensiero che cresce, come un tarlo che scava il cervello. E poi esplode di colpo”.

 

Del resto basta ascoltare i discorsi che ha avviato con la sua scuola in carcere frate Ignazio De Francesco, che ha vissuto in Siria e in Egitto, conosce bene l’arabo e sostiene che la cultura sia l’unico antidoto contro la rabbia che si alimenta nelle carceri dove avviene “la shariatizzazione della radicalizzazione”, dice al Foglio. “Un ragazzo per esempio mi ha detto: ‘Se mi teneste in carcere 20 anni io non potrei avere la certezza di essere perdonato da Dio. Solo la pena shariatica mi potrebbe liberare dal mio peccato. Solo il taglio della mano per i furti e i colpi di frusta per il commercio o il consumo di stupefacenti’”. “Io però credo – continua De Francesco – che un’osservazione critica, attenta, ma anche desiderosa di mettersi a fianco delle persone, sia utile. I lavori di intelligence e di monitoraggio non sono sufficienti. Ognuna di queste persone è una bomba che va disinnescata con il ragionamento, con un insegnamento sulla civiltà araba e sulla religione musulmana che loro conoscono solo attraverso qualche sura usata per giustificare la loro ideologia”.

 

La radicalizzazione in carcere non è un fenomeno recente. Il primo caso di cui si parlò, nel nostro paese, riguardava proprio un italiano: Domenico Quaranta, convertito all’islam nel penitenziario di Trapani e riarrestato nel 2002 per attentati incendiari falliti, nella Valle dei Templi ad Agrigento e all’interno del metrò di Milano, dove lasciava striscioni con scritte inneggianti ad Allah e ai mujaheddin in Afghanistan. Considerato dagli inquirenti mentalmente instabile, i monitoraggi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dimostrarono che, una volta finito nel carcere dell’Ucciardone, conduceva la preghiera dei detenuti ristretti per il reato di terrorismo internazionale che gli avevano formalmente riconosciuto la figura di imam. Perché poi è anche questo il problema: in alcune carceri sono previste delle preghiere collettive, in altre si destina una cella come spazio comune per permettere ai detenuti di pregare in piccoli gruppi. Con imam improvvisati che trasformano i riti in invocazioni di odio. In 52 istituti penitenziari ci sono luoghi di culto ufficiali definibili come moschee; in altri 132 istituti ci sono soltanto stanze utilizzate come luogo d’incontro. Ora è stato siglato protocollo con l’Unione delle comunità islamiche d’Italia (Ucoii), firmato subito prima degli attentati di Parigi del novembre 2015, negli otto istituti dove maggiore è la presenza degli islamici. Una scelta che può destare perplessità perché si tratta di figure spirituali ultraconservatrici dell’islam politico, cresciute nell’alveo della Fratellanza musulmana. Al punto che alte associazioni islamiche presenti in Italia si chiedono per esempio se non fosse meglio rivolgersi alla  Consulta per l’islam italiano, più ecumenica e con un’intesa già in essere con il ministero dell’Interno? E invece, come ci ha spiegato un mediatore culturale di lingua araba, nessuno sa riconoscere le invocazioni che vengono espresse alla fine della preghiera dagli imam autoproclamati in carcere, che finiscono spesso con questa frase rivolta agli infedeli: “Mandateli all’inferno, terremotateli”. Un messaggio chiaro sulla missione che devono compiere una volta usciti dal carcere. Il Dap ha elaborato uno studio approfondito curato da Francesco Cascini, responsabile fino al 2014 dell’Ufficio ispettivo del Dap, per conto dell’Istituto superiore di studi penitenziari, in cui è stata analizzata e sviscerata la questione dell’islamizzazione in carcere: “La radicalizzazione del terrorismo islamico. Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in carcere”.

 

Con analisi comparate con la radicalizzazione negli altri paesi europei. Si tratta di una lunga narrazione del fenomeno che è cominciato all’alba del Terzo millennio. I detenuti radicalizzati aumentano e così le segnalazioni, le perquisizioni, i trasferimenti per spezzare sodalizi ritenuti troppo pericolosi perché, non dimentichiamolo, è in un carcere italiano, dove per la prima volta da un un’intercettazione ambientale è emerso il progetto eversivo di voler fare un attentato a Parigi. “I detenuti radicalizzati si riconoscono in molti modi. I Multazimun (strettamente osservanti) hanno un atteggiamento maniacale sul rispetto degli orari della preghiera e si esprimono con tono solenne e ispirato, spesso citando versetti del Corano”, si legge nello studio. “Invece i Mutashaddid (fondamentalisti) sono figure frequentemente nominate dai musulmani ma che all’interno del carcere sembrano spesso apparire come una presenza immateriale e celata perché le loro posizioni di intransigenza e intolleranza verso il sistema non si manifestano apertamente”. Sono loro i cattivi maestri che cercano di non destare sospetti o attirare le attenzioni da parte degli operatori per nascondere la loro opera di reclutamento. Quando nel 2008 è stato creato un coordinamento fra l’intelligence penitenziaria con il comitato di analisi strategica dell’Antiterrorismo, i detenuti considerati a vari livelli pericolosi – di cui si controllava la corrispondenza epistolare, i colloqui e le telefonate, le letture, le frequentazioni, la destinazione dei loro flussi finanziari – erano solo 57. Oggi il numero è salito a oltre 300, anche se alcune stime ufficiose calcolano che siano 500. “Ma se prima, quando in carcere e fuori operava la rete gerarchica di al Qaida, la radicalizzazione avveniva con gradualità, oggi invece avviene in tempi rapidissimi velocissima”, ci ha fatto notare un educatore penitenziario. Perché le carceri non sono solo serbatoi di integralisti, ma anche detonatori. Come è successo ad esempio a un adolescente scappato in Siria da una comunità di accoglienza cattolica a Milano nel 2014. Probabilmente indottrinato all’esterno, durante un campeggio dei tabligh, missionari salafiti dediti al proselitismo, è stato proprio a San Vittore che la sua vita, fino ad allora caratterizzata da espedienti e di uso di droghe, ha cambiato direzione. In una cella.

 

Per questo motivo il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, Sappe, afferma che il cambiamento di politiche penitenziarie ora più garantiste, come richiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, stia favorendo l’islamizzazione. A essere messa sotto accusa è la vigilanza dinamica che opta per l’osservazione del detenuto lasciato fuori dalla cella tutto il giorno. “La promiscuità fuori dalle celle e la scarsa presenza degli agenti favoriscono la radicalizzazione”, punta il dito il segretario generale del Sappe, Donato Capece, ma forse la vigilanza dinamica che permette di scontare una pena meno afflittiva non c’entra nulla. Semplicemente il carcere è sempre stato uno specchio che riflette ciò che accade nella società esterna. E se le galere non sono mai servite, tranne che per percentuali residuali, allo scopo della pena che dovrebbe essere rieducativa e non vessatoria, allora accade così anche con i detenuti di fede musulmana. Fuori l’integralismo cresce e dentro, favorito dalla concentrazione di molti musulmani che vivono di espedienti, si amplifica. Le celle, ancora di più se chiuse e sovraffollate, di detenuti comuni sono state in questi ultimi cinque anni serbatoi di integralisti. Che poi sono quasi sempre delinquenti di piccolo cabotaggio, che vengono messi davanti a una scelta obbligata dai loro reclutatori. Il loro messaggio è banale: se vuoi salvarti dall’inferno, ti devi mettere al servizio della guerra santa. In Italia non si è ancora arrivati al punto, come nel Regno Unito, dove l’imposizione della sharia in carcere avviene con violenza, ma la situazione è da bollino rosso. E solo un’opera di de-radicalizzazione da parte di mediatori culturali o imam esterni, insieme al monitoraggio costante, può (forse) arrestare il fenomeno. Come ha scritto in un breve saggio di riflessione frate Ignazio De Francesco per raccontare l’esperienza della scuola di de-radicalizzazione cui ha partecipato anche l’islamologo dell’Uuniversità Cattolica Paolo Branca, “il ritorno alla religione dei detenuti musulmani è totalmente autogestitO dai detenuti stessi. Tra loro emerge sempre qualche leader, che inizia spesso con l’incarico di muezzin, passando in modo del tutto naturale alla guida della preghiera e alla predicazione del venerdì. Tiene buoni rapporti con il personale di custodia e si conquista così una certa fiducia. La soluzione è pratica e a costo zero ma non c’è bisogno di dilungarsi per dire quanto sia problematica”. In ogni caso dal tam-tam di Radio Carcere emerge che il segnale della radicalizzazione non è soltanto la barba lunga. A Rossano Calabro, la cosiddetta Guantanamo italiana, c’è chi fuma e chi è “addirittura” omosessuale. Così come non è plausibile negare, come fanno al Dap per minimizzare, che dal magma della radicalizzazione in carcere emergano terroristi. Lo dimostra il fatto che Karlito Brigante, radicalizzato in carcere, aveva solo due desideri: andare in Siria e trasformarsi in un’autobomba.

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