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Gli autisti di Uber sono più “produttivi” dei tassisti. Uno studio obamiano per Renzi

Massimiliano Trovato

Uno studio di Alan Krueger e Judd Cramer sull’app che negli Stati Uniti supera i taxi vecchio stile. I motivi? Tanta tecnologia, assenza dell’obbligo di rientro alla rimessa, e un sistema di tariffazione flessibile più adeguato al mercato.

Da tempo i fautori della cosiddetta sharing economy annoverano tra i benefici dell’economia collaborativa la sua capacità d’incrementare l’efficienza del sistema economico, minimizzando l’impatto delle risorse inutilizzate. Un nuovo studio curato da Alan Krueger e Judd Cramer rimpingua le munizioni intellettuali a sostegno di quest’opinione.

 

Gli autori si sono ripromessi di misurare le differenze d’efficienza del servizio UberX – quello con autisti non professionali, noto in Europa come UberPop e messo al bando in Italia da una famigerata sentenza del tribunale di Milano – e dei taxi tradizionali. Per farlo, si sono concentrati su cinque città degli Stati Uniti (Boston, Los Angeles, New York, San Francisco e Seattle) e su due indici di utilizzo della capacità disponibile: i chilometri percorsi con un cliente a bordo (rispetto alla percorrenza complessiva) e il tempo trascorso con un cliente a bordo (rispetto all’orario di servizio complessivo). Il responso è cristallino: il tasso di utilizzo dei veicoli Uber supera in media del 38 per cento quello delle auto pubbliche.

 



 

Come spiegare una differenza tanto significativa? Krueger e Judd individuano quattro elementi. I primi due, la disponibilità della piattaforma tecnologica e la presenza di economie di scala, sono i meno interessanti dal punto di vista regolamentare. I tassisti hanno accumulato un ritardo considerevole su entrambi i versanti, ma nulla vieta loro di colmare la distanza – come in parte sta già avvenendo grazie ad app come MyTaxi, che non solo garantiscono agli utenti la stessa immediatezza e praticità d’uso di Uber, ma permettono anche ai taxi di superare le frammentazioni dei mercati locali.

 

Gli altri due aspetti che contribuiscono a spiegare la maggior efficienza di Uber sono più rilevanti per i regolatori. Da un lato, i limiti geografici insiti in un regime di licenze comunali possono impedire ai tassisti di raccogliere un cliente nel luogo dove ne hanno appena scaricato un altro, così condannandoli a una quota di viaggi a vuoto. Curiosamente, i tassisti italiani si oppongono radicalmente alla rimozione del vincolo di rientro alla rimessa previsto per gli autisti NCC, che ha effetti simili.

 

Infine, Krueger e Cramer evidenziano come il sistema di tariffazione flessibile tipico del modello Uber permetta di bilanciare meglio domanda e offerta nel corso della giornata. Questa conclusione, in particolare, ha implicazioni importanti per una delle caratteristiche più controverse del servizio: i rincari, anche considerevoli, nelle ore di punta e in caso di picchi di domanda. In altre parole, gli aumenti di prezzo eccezionali sono parte integrante di un assetto che, nel complesso, procura sostanziosi benefici per i consumatori – gli autori calcolano che, a parità di reddito orario per i guidatori, Uber può fissare tariffe inferiori del 28 per cento rispetto a quelle dei taxi.

 

I malfidenti già sottolineano come Krueger – professore di economia e politiche pubbliche a Princeton ed ex presidente del Council of Economic Advisors di Obama – sia stato autore di un altro studio su Uber, lavoro in quel caso commissionato e finanziato dalla società californiana. E, tuttavia, screditare le motivazioni di una ricerca non basterebbe comunque a smentirne i risultati. In un momento in cui, per l’ennesima volta, le rivendicazioni muscolari dei tassisti guidano la mano tremula del legislatore, sarebbe il caso di cominciare a rispondere agli argomenti con altri argomenti, anziché con illazioni e slogan buoni a malapena per le piazze.

 

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