Agnelli-Rep. e quella concentrazione che, però, rimane

Massimo Mucchetti
I vincoli della legge 416 sembrano superati dall’evoluzione del settore editoriale, incapace di reggere la sfida delle nuove tecnologie digitali. Non sapendo fare di meglio, i giornali tagliano i costi, ricercano le economie di scala. Ma l’antitrust non può essere cieco – di Massimo Mucchetti

C’era una volta la legge sull’editoria che si prefiggeva di evitare l’eccesso di concentrazione dei quotidiani. Avrebbe indebolito il pluralismo dell’informazione, fondamento della democrazia. Per quanto sembri ormai dimenticata, la legge 416 del 1981 è ancora in vigore e stabilisce che nessun raggruppamento di quotidiani possa avere oltre il 20% delle tirature nazionali. Questa soglia verrà superata con l’incorporazione dell’Itedi, che possiede la Stampa e il Secolo XIX, da parte del Gruppo editoriale L’Espresso, che possiede Repubblica e la catena di quotidiani locali Finegil. Un’incorporazione che costituisce, per i soci dell’Itedi, una cessione. Se non verranno adottate astuzie particolari, la somma delle tirature, censite dall’Agcom nel 2013, ultimo anno utile, supera il 22%. La circostanza richiede una presa di posizione dell’Agcom, che potrà dettare i rimedi del caso. Ma questa operazione va letta anche sotto altri profili. Un profilo riguarda la Fiat e gli Agnelli. Con questa cessione, cui seguirà la fuoriuscita da Rcs, la Fca abbandona l’editoria. Se l’Exor, la holding degli Agnelli, investe nell’Economist, va benissimo. E’ un’altra cosa. L’auto, invece, non ha nulla a che fare con la stampa. In questi anni, del resto, la presenza torinese in Rcs non ha generato nulla di buono. I risultati parlano da soli. Sia sul piano economico sia su quello della governance. La scelta attuale, tuttavia, non deriva dalla conversione alla linea einaudiana, favorevole all’editore puro. A tale linea John Elkann si è attenuto a Londra, perché il club dell’Economist è abbastanza forte da imporla. Ma non l’ha mai praticata in Italia. Né a Torino, dove la sua famiglia divenne padrona della Stampa grazie al fascismo, né a Milano, al Corriere. La scelta attuale deriva dalla constatazione che il progetto elkaniano di fondere Itedi con Rcs non marciava.

 

Non pare realistico nemmeno dire che la cessione all’Espresso sia stata dettata dalla necessità di ripulire Fca da un business improprio perché c’è una GM con la quale convolare a nozze. La GM è sempre stata una pia illusione. Basta guardare la debolezza strutturale della casa italo-americana, governata da Sergio Marchionne, rispetto a quella americanissima, guidata da Mary Barra. Una debolezza che si riassume nell’andamento delle quotazione degli ultimi sei mesi: GM più 3%, Fca meno 17% (la stessa flessione patita da Volkswagen, che ha dovuto sopportare il dieselgate). Siamo alla realpolitik. Diciamocelo e può anche bastare. Ma c’è dell’altro. Che riguarda la storia e il futuro. Il gruppo Espresso condusse negli anni 80 forti campagne di denuncia contro la concentrazione delle testate in capo alla Fiat allorquando la casa torinese assunse un ruolo centrale nella compagine azionaria di Rcs. Sommava le tirature della Stampa con quelle del Corriere e della Gazzetta dello Sport. Le denunce non ebbero effetto perché la Fiat non esercitava il controllo né di diritto né di fatto in Rcs. Giovanni Agnelli sceglieva il direttore del Corriere, ma formalmente la nomina era fatta da un sindacato azionario con doppia maggioranza delle teste e dei voti. Resta, però, quel l’impegno di Repubblica…

 

Oggi Giovanni Agnelli non c’è più, Carlo De Benedetti è un saggio signore di 82 anni, appassionato di politica, che ha lasciato il timone nelle mani del figlio Rodolfo e di Monica Mondardini. Quei vincoli della legge 416 sembrano superati dall’evoluzione del settore editoriale, incapace di reggere, almeno per ora, la sfida delle nuove tecnologie digitali. Non sapendo fare di meglio, i giornali tagliano i costi, ricercano le economie di scala. L’antitrust non può essere cieco. E tuttavia la logica dell’industria non esaurisce tutto. In altre parole, possiamo considerare superata anche la preoccupazione politica per il pluralismo, che ha tante volte ispirato le posizioni antiberlusconiane del gruppo Espresso? Credo di no. Il pluralismo dell’informazione resta un pilastro della democrazia. Assicura che il corpo elettorale non sia manipolato oltre misura dai centri del potere economico e del potere politico attraverso l’uso distorto di pochi media in loro possesso. La libertà consentita dalla rete  non compenserebbe la perdita di autonomia delle fabbriche delle notizie e delle analisi. Abbiamo l’esigenza di rispettare le regole in vigore e, al tempo stesso, di ripensare l’intera industria dell’informazione. Anche perché certi affari possono porre le premesse per altri.

 

[**Video_box_2**]Silvio Berlusconi avrebbe, volendo, i mezzi per scalare una Rcs, che vale tra i 250 e i 300 milioni in Borsa e ha un management debole. Il debito bancario di mezzo miliardo potrebbe essere ridotto di parecchio vendendo i libri, la Spagna e la Gazzetta e il residuo convertito in azioni ove si presentasse un investitore adeguato. Non accadrà perché Berlusconi è anziano e stanco, ma se accadesse, Repubblica non avrebbe più niente da obiettare. Visto che il premier, al quale il quotidiano della famiglia De Benedetti non ha fatto mancare il suo appoggio, non ha avviato alcuna riforma della legge Gasparri, limitandosi a mettere le mani sulla Rai. Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, la mossa della Fca e dell’Espresso potrebbe accelerare i giochi in via Solferino. Ma di questo tema meriterebbe uno svolgimento a parte.

 

P.S. Ho lavorato 17 anni nel gruppo Espresso, che mi ha consentito – come poi il Corriere – di coltivare l’esercizio della libertà. La quale parte dal rispetto delle regole. Anche da parte degli amici.

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