Alberto Stasi (foto LaPresse)

Non spero che Stasi sia colpevole, spero che sia innocente chi l'ha condannato

Guido Vitiello
Bis, ter, quater in idem: come processi perennemente ricelebrati, ci sono dilemmi tenaci che tornano di secolo in secolo. Commentando la vicenda Stasi, sul Foglio del 15 dicembre, l’ex magistrato Piero Tony ha scritto che dobbiamo mettere sotto accusa "il sistema processuale".

Bis, ter, quater in idem: come processi perennemente ricelebrati, ci sono dilemmi tenaci che tornano di secolo in secolo. Commentando la vicenda Stasi, sul Foglio del 15 dicembre, l’ex magistrato Piero Tony ha scritto che dobbiamo mettere sotto accusa “il sistema processuale – che va urgentemente riformato – e non i magistrati suoi celebranti”. Con regole migliori, se ne deduce, casi raccapriccianti come quello che ha portato alla condanna di un pluriassolto sarebbero impensabili. E sia; ma in un lampo di déjà-vu ho ripensato alle battute finali dell’ultimo intervento pubblico di Enzo Tortora, in collegamento telefonico dal suo letto d’ospedale con la trasmissione “Il testimone” di Giuliano Ferrara. Alessandro Criscuolo, presidente allora dell’Anm (e oggi della Corte Costituzionale), sosteneva che il caso Tortora era nato dalle scorie di un sistema processuale figlio di tempi bui e autoritari, che la radice delle storture era nel vecchio rito inquisitorio tutto sbilanciato sull’accusa, che l’imminente introduzione del nuovo codice avrebbe reso impossibile il ripetersi di una tragedia come quella (non si azzardava a chiamarlo errore). Cercava poi, in tono di curiale sollecitudine, di ottenere l’assenso di Tortora, che però trovò un filo di voce per rispondergli, o meglio per mettere la domanda a testa in giù: “Io credo che voi siate impegnati in una difesa corporativa”, disse. “Volevate difendere la vostra cattiva fede”. Dalle colpe del sistema eccoci riportati alle colpe degli uomini.

 

Poche settimane dopo Tortora morì, e volle con sé nella bara la “Storia della Colonna infame”, il libro dove il dilemma era posto nel più limpido dei modi. “Una cattiva istituzione non s’applica da sé”, scriveva Manzoni nelle prime pagine, discostandosi dalle tesi di Pietro Verri – ed è storia nota. Ma Tortora non scelse una copia qualunque del classico di Manzoni. Scelse l’edizione Sellerio del 1981 perché c’era una prefazione di Leonardo Sciascia, dove si leggeva: “Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, Manzoni alle responsabilità individuali”. L’illustre prefatore di un’altra edizione, Franco Cordero, accusava Manzoni di aver allestito un teatrino consolante in cui gli attori optano tra Bene e Male fluttuando in un vuoto metafisico, senza tener conto delle abitudini, della cultura del tempo, in una parola del sistema.

 

[**Video_box_2**]Ma un dilemma tenace, attraversando i secoli, non trova solo nuovi attori e nuovi pretesti attorno a cui svolgersi, trova anche nuove scenografie. E a Piero Tony – che non ha certo scrupoli corporativi, lo dimostra il suo pamphlet “Io non posso tacere” – si potrebbe chiedere: ha senso riproporre la distinzione tra liturgia e celebranti, quando è proprio il sistema processuale a lasciare ai magistrati – dall’avvio delle indagini alla conclusione del giudizio – margini così spaventosi di discrezionalità e di arbitrio irresponsabile da magnificare, anziché comprimere, l’elemento soggettivo? Io non spero che Stasi sia colpevole, spero che siano innocenti gli uomini che l’hanno condannato.

Ma anche questo, ora che ci penso, l’aveva già detto qualcuno. Bis in idem.

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