In beneficenza il cuore conta meno della vanità. Il caso americano

Luciano Capone
Cosa ci insegna il caso della donazione di Zuckerberg e consorte

Milano. La decisione dei coniugi Zuckerberg di donare, in occasione della nascita della figlia Max, il 99 per cento delle azioni di Facebook (45 miliardi di dollari) si inserisce nella lunga tradizione della filantropia statunitense, che va dai grandi industriali dell’Ottocento come John Rockfeller e Andrew Carnegie e arriva ai businessman dei giorni nostri come Bill Gates e Warren Buffett. Ma fare beneficenza negli Stati Uniti non è solo roba da ricchi, è un costume largamente diffuso nella popolazione. Gli americani sono davvero generosi. Nove su dieci ogni anno offrono soldi o tempo ad almeno un ente caritatevole, le donazioni individuali superano i 300 miliardi di dollari l’anno, una somma superiore al pil della Grecia, a cui vanno aggiunte le donazioni di aziende e fondazioni. Il totale dei soldi in beneficenza supera il 2 per cento del pil americano, dal 1990 le donazioni sono raddoppiate in termini reali e dal 1968 sono cresciute a un tasso doppio rispetto a quello dello S&P 500 (l’indice azionario delle 500 corporation più grandi). Parliamo di un settore importante dell’economia americana che è potuto nascere e prosperare in un ambiente economico e istituzionale favorevole, basti pensare ai forti incentivi fiscali che spingono le persone a donare e a controllare dal basso l’operato delle organizzazioni benefiche (in Italia, al contrario, è fiscalmente più conveniente finanziare un partito piuttosto che una no-profit).

 

L’ecosistema americano ha fatto fiorire migliaia e migliaia di enti benefici – dal 1995 al 2005 il numero delle organizzazioni no-profit è cresciuto del 60 per cento – che si occupano di tematiche sanitarie, sociali e ambientali. Questa enorme diversificazione, insieme alla concorrenza e alla necessità di dovere maneggiare le risorse responsabilmente, porta anche allo sviluppo di metodi organizzativi più efficienti. E in questo senso Zuckerberg, dopo avere rivoluzionato il mondo dei social network, sta cambiando anche la filantropia per la scelta di indirizzare i suoi averi non verso una no-profit, ma in una Limited liability company: “Ciò che Zuckerberg propone – ha scritto sul Wall Street Journal Leslie Lenkowsky dell’Indiana University – è sfruttare il profitto per obiettivi filantropici. Le società nelle quali la Chan Zuckerberg Initiative investe dovranno mostrare sia un ritorno finanziario per essere sostenibili sia uno sociale per ottenere ulteriori finanziamenti”.

 

[**Video_box_2**]Man mano che ha acquisito rilevanza economica e sociale, la beneficenza ha attirato anche l’attenzione degli economisti. Uno di quelli che si è occupato più del tema è John List (il suo nome girava anche per il Nobel), economista all’Università di Chicago, che ha applicato le lezioni di due premi Nobel, Gary Becker per l’approccio economico allo studio dei fenomeni sociali e Vernon Smith per il metodo sperimentale per valutare gli effetti degli incentivi. Quando ha iniziato a occuparsi del mondo della beneficenza List si è accorto che non c’era alcuna analisi quantitativa sui metodi migliori per raccogliere donazioni, nessuno si era mai occupato della questione e gli operatori si affidavano al loro istinto o a idee comunemente accettate. Così ha avviato una lunga serie di esperimenti sul campo per rispondere a una sola domanda: “Cosa spinge le persone a donare?”. Dai risultati degli esperimenti, la conclusione a cui giunge List è che alla radice dell’azione umana c’è il self-interest, che non è l’egoismo, ma la ricerca di un benessere anche quando si fa qualcosa per gli altri, una specie di altruismo impuro, e che quindi quando si chiedono soldi per scopi benefici non bisogna fare “appello al cuore” delle persone ma “alla loro vanità”. Può apparire una descrizione cinica del genere umano, ma le ricerche di List ricordano anche a chi ha nobili progetti che le intenzioni di chi raccoglie i soldi contano molto meno delle motivazioni di chi dona. E il suo approccio sperimentale insegna che, anche nel campo della beneficenza, c’è bisogno di un sistema libero e decentralizzato, che faccia nascere tanti Zuckerberg e sappia sfruttare la loro vanità per fini altruistici.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali