Il romanzo di una convertita spiega il senso dell'islam per l'Italia

Cristina Giudici
La retata antiterrorismo di ieri, la loro fede contro i nostri iphone. L’operazione internazionale denominata “JWeb” ha portato in carcere diciassette presunti terroristi: tutti immigrati in Europa dal Kurdistan iracheno, tranne un kosovaro, residente a Merano. Una cellula jihadista che agiva in Italia per reclutare militanti del terrorismo islamico.

Milano. Ieri un’operazione internazionale antiterrorismo denominata “JWeb” ha portato in carcere diciassette presunti terroristi: tutti immigrati in Europa dal Kurdistan iracheno, tranne un kosovaro, residente a Merano. Una cellula jihadista che agiva in Italia per reclutare militanti del terrorismo islamico. Sette sono stati fermati in Italia, nel nord-est. L’indagine dei carabinieri del Ros riporta al centro della nostra attenzione proprio quell’area geografica – che secondo gli inquirenti italiani sta diventando un crocevia di islamisti – ma soprattutto la crescita del fenomeno dei foreign fighters in Italia. Involontariamente tempestiva, Silvia Layla Olivetti, una donna italiana convertita, ha scritto un romanzo ispirato alle gesta dei foreign fighters che arriverà in libreria il prossimo 21 novembre: “Isis - Diario di un jihadista italiano” pubblicato dai tipi di David and Matthaus. Il Foglio ha letto la bozza in anteprima del romanzo. L’autrice è una figura molto controversa della comunità musulmana italiana, nota anche per la sua battaglia a favore del diritto al velo integrale. Il libro sottintende probabilmente un auspicio, poiché si svolge nel futuro prossimo. Nel 2021. E si apre con una serie di agenzie stampa su un attentato al campanile di San Marco che, come le torri gemelle, crolla e poi si disintegra. La storia intreccia le vicende di vari aspiranti mujaheddin, tutte verosimili, e la storia vera di un marocchino, espulso dall’Italia e poi diventato miliziano dell’Is. La storia inizia con l’immagine di una donna musulmana, che guarda caso si chiama Giulia, come la jihadista Maria Giulia Sergio, partita con il marito albanese per la Siria nel 2014. Una coincidenza? Può darsi, perché la narrazione è molto diversa dalla realtà. Ma non lo è affatto il suo libro-pamphlet, che è un violento atto di accusa contro l’occidente e serve come premessa per far capire ai lettori perché un musulmano si spinga a diventare jihadista.

 

Il protagonista del romanzo scrive un diario dalla Siria. Lancia invettive contro l’occidente per spiegare la sua scelta: “Tutto questo è anche per mia madre. E’ per mia sorella, per la violenza e la discriminazione che vive giorno dopo giorno in Italia; per le persecuzioni subite dai nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo. Per il razzismo, l’islamofobia, l’ingiustizia e le bugie mediatiche. Per le bombe americane e per i nostri morti: la mia anima ad Allah, il mio corpo al jihad. Allah w akbar!”. Il protagonista è la summa, abbastanza rozza, di tutti quei pensieri che i musulmani ci hanno rimproverato di aver trasformato in stereotipi islamofobici. E invece, essendo uscito dalla penna di una convertita, vengono confermati come parte del Dna degli estremisti islamici. Infatti nel suo diario più o meno inventato dall’autrice, il protagonista scrive: “Per quasi trent’anni l’occidente ha violentato terre altrimenti pacifiche, sterminando innocenti, donne incinte, depredando materie prime, risorse e lasciando i bambini abbandonati crescere nella solitudine, nella disperazione e nel desiderio di vendetta. Quando sei un orfano iracheno che a nove anni ha raccolto dal muro di casa il cervello di sua madre a causa della democrazia occidentale sganciata dagli F-16, lo Stato islamico non ti fa orrore: ti riempie il cuore della speranza di una giustizia troppo a lungo negata”.

 

La narrazione di Silvia Layla Olivetti intreccia i pensieri del mujahed arrivato in Siria con la guerra all’occidente e le vicende di donne che hanno lasciato l’Europa perché discriminate o in cerca delle terra promessa ai musulmani. E le loro vicende somigliano a quelle descritte in migliaia di pagine dei fascicoli giudiziari sui foreign fighters. Il pensiero dell’autrice esposto dalla voce narrante del romanzo è abbastanza prevedibile per chi conosce la comunità musulmana italiana. “Per capire cosa spinga i convertiti all’islam, i figli dei convertiti o le seconde generazioni di musulmani europei a sposare una causa che apparentemente non appartiene loro, è necessario innanzitutto essere disponibili ad ascoltare anche verità scomode. A differenza di chi è nato in una terra islamica, noi musulmani europei siamo cresciuti respirando l’illusione della democrazia, della giustizia e della libertà. Il risveglio da questo bel sogno è stato brusco, doloroso e ci ha catapultati direttamente nella devastante verità dei soprusi occidentali ai danni del medio oriente. Ho conosciuto molti mujaheddin, europei convertiti che affermano di essersi arruolati nell’Is per rimediare almeno in parte al male che la loro società di origine aveva inflitto ai loro fratelli nella fede. Hanno tutti in comune la volontà di riparare, mettere la propria a vita a disposizione di una causa che li riguarda in quanto musulmani. I convertiti all’Islam sentono di essere in qualche modo responsabili delle guerre ingiuste subite dai popoli del medio oriente: responsabili per non averle impedite, non avere capito o non aver potuto fermare le bombe. Si sentono in colpa e l’unico modo per porvi rimedio è mettere la vita al servizio della causa più importante: il jihad”. Non si capisce se Silvia Layla Olivetti inventi, riporti testimonianze o confidenze, anche se dietro il suo protagonista si cela una storia vera, quella di Oussama Khachia, il marocchino espulso dell’Italia dopo l’attentato a Charlie Hebdo per la sua propaganda sul web pro terroristi.

 

[**Video_box_2**]Alla fine del racconto, però, l’autrice sembra quasi non scherarsi con lo Stato islamico e porta il suo protagonista a dubitare della giustizia del Califfato e a pentirsi davanti alle barbarie commesse dai mujaheddin. Lo fa diventare un murtad, un traditore. E però, resta da capire il ruolo italiano in questa situazione. Nella conclusione Olivetti scrive le sue riflessioni, e ci dice finalmente ciò che sospettavamo sul sostegno diffuso nella ummah italiana per l’Is: “Il successo che indubbiamente riscuote a livello ideologico l’Isis in alcune aree e comunità (anche se sono pochissimi i musulmani che lo ammettono apertamente) riflette l’urgente necessità di un ritorno a valori e ideali da tempo perduti. Il progetto dell’Isis potrà anche essere giudicato dai più come anacronistico e megalomane, tuttavia si erge sulla forza di un’idea potentissima dagli sviluppi incalcolabili. Ignorare questa realtà, oggi, sarebbe molto pericoloso”. E alla fine viene da chiedersi se la vera conclusione del romanzo sia insita in questa banale considerazione del protagonista: “Gli italiani sono diventati dei grassi bradipi ai quali va bene tutto, purché non costi fatica. E, finché in Italia e in Europa la gente vivrà soggiogata dai beni materiali, senza alcun principio per il quale lottare e in cui credere, lo Stato Islamico avanzerà inesorabilmente. E’ la nostra fede contro i loro iPhone”. L’ingenuità di immaginare una guerra santa fatta per contrapporsi al verbo di Steve Jobs, condotta, come dimostrano gli arresti di oggi, soprattutto a colpi di tecnologia, fa quasi sorridere. Ciò che non fa sorridere è il numero sempre più alto di foreign fighters, disposti a morire uccidendo: un pericolo reale.

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