Quante parole derivano dal gergo delle forze armate (e noi non lo sappiamo)

Maurizio Stefanini
Da battere la fiacca a marcar visita, da fessi a spallata, da imbranati a tanica, un libro racconta come il linguaggio militare ha influenzato quello civile. Pochi studi sono stati fatti sino a oggi, questo è sorprendente anche perché la bibliografia di Pagano attinge soprattutto a letteratura e memorialistica, oltre che a qualche studio folkloristico.

Si “batteva la fiacca” e si “marcava visita” già nella Regia Armata Sarda, ma i “fessi” e l’arte di “arrangiarsi” vengono dal reale Esercito delle Due Sicilie, mentre la “naja” verrebbe dalla pronuncia austro-tirolese del tedesco “neu”: “die neue”, i nuovi, le reclute dell’esercito asburgico. Con l’Unità d’Italia, nel nuovo Regio Esercito Italiano appaiono da una parte i “lavativi”; dall’altra i “pignoli”. Poi le trincee della Grande Guerra oltre a forgiare nel ferro, nel fuoco e nel fango l’amalgama tra gli italiani insegnano al linguaggio di tutti i giorni cosa sono una “quota”, una “spallata”, il “mimetismo”, un “velivolo”. E anche gli “imboscati”: quelli che dal “fronte” stanno “defilati”, per via della “fifa”.

 

A proposito: dal “Maggio Radioso” che ci portò nella Grande Guerra sono appena passati i cento anni. E il 4 novembre è la Giornata delle Forze Armate che in questo centenario ricorda la vittoria di tre anni e mezzo dopo. Tra tante opere in libreria in vario modo collegate alla ricorrenza, c’è anche “Il gergo militare in Italia. Le parole dei soldati dalla prima guerra mondiale ad oggi”: un agile libretto edito da Le Lettere (106 pp., 14,50 euro), il cui autore Sante Pagano è un ufficiale di cavalleria laureato in Lettere all’Università di Messina. Una doppia competenza che gli ha permesso di esplorare un campo in italiano finora molto poco indagato, a parte qualche studio monografico. C’è stato un saggio sull’“argot dei reparti alpini piemontesi”, pubblicato nel 1955 sul Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano. E poco altro. La bibliografia di Pagano attinge soprattutto a letteratura e memorialistica, oltre che a qualche studio folkloristico: Prezzolini, Barzini, Caravaglios, De Bono, Gadda, Gasparotto, Jiahier, Monelli, Rigoni Stern, anche il Diario di Guerra di Mussolini.

 

Raro esempio di un titolo che promette meno di quanto poi non mantenga in effetti, come già ricordato, la ricostruzione inizia da prima della Grande Guerra. In compenso, si spinge poi in avanti, fino alle ultime missioni di pace. Dalla Seconda Guerra Mondiale, in particolare, rimbalzarono nel linguaggio comune la “guerra lampo”, la “terra bruciata”, il “carro armato”, i “panzer”, i “partigiani”. Ma, ricorda Pagano, “ogni fronte ha dato i suoi gergalismi”. Dal Nord Africa arriva ad esempio “insabbiato”, e ciò è fin troppo ovvio; ma anche “spaccio” e “organizzare”. Dai reparti motorizzati “copertone”, “tanica”, “jeep”, “grippare”. Dalla guerra aerea “sdrumare”. Dalla Russia il “tornare a baita” ossessivo nel “Sergente nella neve”.  

      

Una cosa che colpisce è però che mentre prima del 1945 il linguaggio militare ha arricchito quello di tutti i giorni, i gergalismi dell’esercito della repubblica restano invece nelle caserme. Probabilmente, perché la leva è stata limitata alle classi di età via via richiamate. Non c’è stata dunque quella stessa massiccia osmosi tra vita militare e civile delle leve di massa delle due guerre mondiali A chi non ha fatto la già citata “naja”, bisogna dunque spiegare che l’“alba” è il giorno del congedo. Meno giorni vi mancavano, più si era “nonni”. Se no, si era “spine”: così “imbranati” (termine dal gergo degli alpini, per i muli trattenuti dai finimenti), che “basta muoversi che si punge”. Insomma, la “spina” è un “microbo”, e il “nonno” o “anziano” per irriderlo gli “batte la stecca”: schioccare di dita che imita il rumore della striscia di legno un tempo usata nelle scuole militari per lucidare i bottoni dell’uniforme. Che il congedato o il promosso non dovevano usare più.

 

In compenso, anche dopo la fine del servizio obbligatorio il nuovo esercito professionale ha continuato a creare linguaggio, e una lista di “gergalismi nelle missioni di pace” comprende due pagine. Mentre in passato si attingeva molto ai dialetti, questo linguaggio militare più recente è denso di anglicismi. “Condonare”, cioè mettere in sicurezza tattica un’area contro un’infiltrazione nemica, viene ad esempio da “cordon search”. Uccidere con una granata a frammentazione si dice “fragging”. Far fuoco a volontà è “go kinetic”. I Taleban sono gli “insurgents”. Il fosforo bianco è Willy Pete: complesso di musica natalizia distribuita in cd alle truppe in zona di operazioni, che ha le stesse iniziali del White Phosphorus. Ma una cosa c’è in comune, tra gli uomini oggi impegnati in Afghanistan e i loro trisavoli e bisnonni che combatterono sulle trincee del Carso e del Piave, o del Don e di El Alamein: un acre umorismo dai toni spesso macabri. “Avanzare verso le cucine” era definita durante la Grande Guerra la ritirata. “Centomila Soldati Italiani Rovinati” venne tradotta la sigla del Csir, Corpo di Spedizione Italiano in Russia. Oggi la bonifica del territorio controllato è definita “abbattimento degli ostaggi”. “Andato avanti” è un soldato colpito a morte. “Sedile della morte” è quello sulla torretta dei blindati. I vecchi “lavativi” sono in compenso stati promossi a “fancazzisti”, sono comparsi i “maschi alfa”, e sul legno dell’avamposto “Snowe” del Gulistan è stato trovato inciso: “davanti ai muli, dietro i cannoni, lontan dai paroni”.

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