L'Expo con un'immagine: polpetta globalizzata vs santuario laico delle tipicità

Marco Alfieri
Prima di voltare pagina, in primavera a Milano si vota, vale la pena raccontare perché Expo 2015 che si è chiuso sabato è stato un successo di pubblico nonostante le profezie sballate di un Beppe Grillo.

Milano. “Ma chi è che viene a Rho? Ditemi! Non c’è un cazzo, cosa guardo? Non c’è niente! C’è un campo e quattro pezzi di cemento…”. Prima di voltare pagina, in primavera a Milano si vota e dalla settimana prossima non si parlerà d’altro, vale la pena raccontare perché Expo 2015 che si è chiuso il sipario sabato è stato un successo di pubblico nonostante le profezie sballate di un Beppe Grillo, perché i giornali al solito non ci hanno azzeccato (salvo poi, eventualmente, unirsi ai cori trionfali di queste ultime settimane) e perché l’Esposizione dopo un inizio in sordina è stata un crescendo di visitatori, mese dopo mese, una specie di effetto palla di neve. Potrebbe persino suonare ingeneroso rivangare la fosca previsione grillina, vomitata nel marzo dello scorso anno davanti ai cantieri Expo, perché quella del comico genovese era ed è stata in fondo una posizione diffusa, reiterata, un rumore di fondo che ha accompagnato un po’ tutto l’avvicinamento all’Esposizione universale. Basta sfogliare i media di sei mesi fa per trovare le critiche catastrofiste (“vedrete, sarà un flop”) e il ditino alzato a ogni arresto, avviso di garanzia, appalto truccato fuori e dentro Expo. Tutto era marcio e tutto faceva schifo. Per qualche anno abbiamo raccontato Expo come fosse la solita “mangiatoia” nazionale. E’ stato anche quello, forse, ma non è stato solo quello, dettaglio importante. Così quando la manifestazione ha cominciato a carburare siamo rimasti tutti spiazzati dai padiglioni colorati, la gente che sciamava per il decumano e magari ci tornava, postava le foto su Facebook, tirava tardi per vedere lo spettacolo dell’albero della vita e faceva il passaparola con gli amici. Non era concepibile potesse andare bene una schifezza del genere…! Evidentemente agli italiani ha dato di volta il cervello…! Ricordo giornali che a dieci giorni dall’inaugurazione (sarà stato il 22-23 marzo 2015) scrivevano ancora che era pronto appena il 17 per cento del sito espositivo! Il diciassette per cento, capite?

 

La settimana dopo quando la gente ha cominciato a sbarcare a Rho ha potuto vedere che sì, forse non tutto era completato, figurarsi, siamo in Italia, ma il 17 per cento avrebbe voluto dire che non era pronto quasi niente. Va bene la critica, la denuncia, lo scrivere che il sito è completato “solo” al 60-70 per cento, ma il 17 per cento, dài, c’è una misura anche nel catastrofismo se vuoi essere un minimo credibile. Poi, nel corso dell’estate, davanti alle code ai cancelli, la sindrome del flop e del deserto espositivo si è via via trasformata magicamente nel suo contrario: come sono lunghe le file; e non si riesce a vedere niente; e l’organizzazione latita; e il sito è pieno perché si svendono i biglietti; e non ci sono abbastanza ricadute sulla città; e poi chissà cosa succederà dopo, con i terreni, quando la procura riaprirà i cassetti e allora vedremo chi aveva ragione…

 

Benaltrismo fastidioso e un filo patetico. Tutto per non ammettere una banalissima verità, che nulla toglie al giudizio che ognuno può avere sull’esposizione (anche che faccia schifo): il format Expo ha funzionato dal punto di vista dei numeri, a dispetto di chi se lo immaginava un luogo esistenziale senza le multinazionali, dominato da grandi dibattiti per puristi sul futuro dell’umanità e la fame del mondo, perché è stato concepito da subito come un luna park per turisti, famiglie, pensionati e professionisti dell’happy hour. Padiglioni colorati e un filo kitsch, chioschetti e “street food” dappertutto, le sedie rimbalzine griffate Coca-Cola, i percorsi da sussidiario delle medie in formato multimediale, capaci di darti un’infarinatura divertente sulla catena alimentare e le filiere del cibo. Insomma: meno Carlin Petrini, più consumismo pop!

 

[**Video_box_2**]Può non piacere, ci possono essere mille dubbi sul senso di eventi del genere nell’anno del signore 2015, ma come dovrebbe strutturarsi un’Esposizione che deve attirare milioni di visitatori, se non da Gardaland del cibo? C’è un’immagine che dice tutto e potrebbe essere (stata) anche una scelta perfida degli organizzatori. I padiglioni di McDonald’s e Slow Food, il diavolo e l’acqua santa del cibo, si trovano vicini, in fondo al decumano su cui affacciano i paesi partecipanti. Il primo è sempre pieno come lo sono i chioschetti e i baretti del grande sito di Rho, il secondo fisiologicamente molto meno, nonostante il concept elegante, lo spazio dibattiti e i libri sulla cultura del cibo. La predominanza del padiglione della polpetta globalizzata rispetto al santuario laico delle tipicità a chilometro zero è l’esatta metafora di cos’è stata l’Esposizione universale, perché è stato un successo di pubblico, perché è piaciuto molto alla gente normale e un po’ meno alla gente che piace (e si crede migliore), perché hanno funzionato moltissimo le patatine belghe e olandesi al cartoccio (unto) e perché una città come Milano, abituata per lungo tempo a dividersi a tavola per censo, location e potere d’acquisto, in Expo si è incredibilmente contaminata. Forse è questo il vero successo della manifestazione. Il professionista insieme al ragazzotto un po’ hipster, le coppiette insieme allo studente universitario, l’operaio con le scolaresche, i Cral dei pensionati con le famigliole coi passeggini. D’altronde bastava girare in città in questi mesi per osservare l’osmosi con quel che avviene a Expo e la sperimentazione culinaria che la sta investendo al pari di altre grandi città d’Europa. Locali multifunzionali aperti dall’alba al tramonto (e anche oltre) che offrono la brioche e il finger food, lasagne al forno come le ostriche; street food all’italiana che proprio a Milano sta vivendo il suo boom; il bengodi di ristoranti vegetariani/vegani che si moltiplicano; le hamburgherie per tutti i gusti; i mercati metropolitani e la forte concorrenza tra ristoranti etnici. Locali che trovi dentro le mura spagnole come a Lambrate, al Giambellino come in zona Padova, al Lorenteggio come sui Navigli in una città che ha sempre meno abitanti ma un numero enorme di pendolarismo metropolitano e un flusso turistico in aumento. Locali d’ambiente, piccole catene cittadine, monoprodotto spinto perché oggi anche il cibo si disintermedia, prezzi tutto sommato contenuti, packaging all’altezza del tempo presente e, soprattutto, come detto, contaminazione. Fusione di alto e basso.

 

Persino le lunghe file sono state ordinate. Da agosto in poi, quando la fiumana si è decisamente ingrossata, la gente ha continuato a concepire Expo come fosse una gita fuori porta, una giornata di evasione a Gardaland dove metti in conto di dover aspettare per una giostra. Abituati al traffico e agli insulti in tangenziale, gli italiani si sono messi in fila a Rho, “dove non c’è un cazzo…”, senza spazientirsi. Anche questo, a suo modo, è stato un mezzo miracolo.

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