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Non solo rischi

Roberto Volpi
Le agenzie della salute si soffermano solo su ciò che non va. Ecco perché sbagliano

Non ce la fanno, inutile, non è nella loro natura. Non ce la fanno a cambiare paradigma, o almeno ad aggiornare quello così polveroso e pieno di buchi di cui ancora si avvalgono per interpretare il mondo della salute e della malattia. E così nel tempo delle possibilità e delle opportunità, loro sono rimaste in quello esclusivo della necessità. Parlo delle istituzioni e delle agenzie nazionali e internazionali della salute – specialmente di quelle internazionali, Oms in testa. Un tempo che a sentirle sembra rimasto fermo a cinquant’anni fa, in balìa ancora del bisogno, stretto nel diluviare dei rischi che attentano alle vite delle persone e al benessere delle comunità.

 

Hanno sviluppato e messo a punto una epidemiologia dei rischi, dei rischi e dei danni, che andava bene decenni fa. E a quella si sono fermati. Come se niente fosse davvero cambiato, mentre invece è cambiato tutto, nel frattempo. Sono più che mai impegnate a cercare di scovare, illustrare, documentare, allertare l’universo mondo attorno a questo e quel rischio: una processione senza fine di rischi dai quali guardarci da mane a sera, senza poterla scampare se non seguendo pedissequamente tutte le loro indicazioni e raccomandazioni e avvertimenti e pure minacce di malattie e morte e catastrofi sempre in agguato. Ma se davvero facessimo come chiedono loro non vivremmo più, smetteremmo di provare gioia e piacere, finiremmo nella vita allertata, quella che deve calcolare rischi e benefici, perdite e vantaggi di ogni singolo passo e scelta e decisione e azione. E’ questa la visione della vita che ci ammanniscono senza neppure accorgersene: un inferno disseminato di trappole. Ora è la volta delle carni rosse. E degli insaccati. Potenzialmente cancerogeni i secondi, probabilmente cancerogene le prime. Una novità? Ma quale novità. E’ da anni che la notizia circola, più o meno ufficialmente. Ora hanno deciso di rompere gli indugi, nelle alte sfere, e di dare risonanza alla cosa. E dunque via all’allarme cancro legato a questi consumi. La sciocchezza non sta tanto nel fatto che si sottolinei un rischio. Ma nel fermarsi lì, al rischio, senza aggiungere altro, senza nessun’altra considerazione. Togliamo le carni rosse e gli insaccati, salumi e prosciutti, perché presentano un rischio? E i formaggi, allora? Gesù, i formaggi. E il vino? Oddio il vino. Tutta roba il cui consumo presenta dei rischi. E allora? Togliete, togliete pure, e vedrete cosa resta. Frattanto, chi non toglie un bel nulla di tutto questo, ma semmai cerca semplicemente una misura (ch’è pure diversa da persona a persona, fanno sorridere le misure standard, per non dire di peggio) e una qualità (incredibile che in questi studi non venga presa in considerazione la qualità di questi alimenti e di questi consumi), eccolo lì che vive tanto a lungo che se ne studia il segreto della longevità, se non proprio dell’immortalità. L’Italia è terra di salumi, formaggi e vini di sicura qualità. E infatti è in testa alla graduatoria della speranza di vita: 83 anni in media a italiano, una traiettoria ascendente continua, senza cedimenti di sorta oserei dire proprio da quando buone carni e formaggi e vini sono alla portata di un sempre maggior numero di italiani.

 

[**Video_box_2**]Eppure dovrebbero cominciare a capire, tutte queste agenzie sanitarie, che i soli rischi non spiegano pressoché più nulla della salute delle persone e della loro speranza di vita, di una vita lunga come mai è stata prima nel mondo intero. Si prendano le città. Le grandi città. La speranza di vita più alta in Italia è lì che viaggia sulla direttrice Milano-Bologna-Firenze. Più traffico, più inquinamento, più stress, ritmi infernali, pasti consumati in fretta e furia (o almeno così si racconta),  e com’è allora che a Firenze c’è la più alta speranza di vita d’Italia e forse del mondo? Perché per restare alla Toscana la speranza di vita più alta non è, che so, in Lunigiana, aria pura, cieli tersi, paesini abbarbicati su qualche cocuzzolo, nemmeno diecimila abitanti il centro più grande? Come fanno a spiegarsi misteri di questa portata con una epidemiologia di soli rischi che non contempla il piacere e la gioia, il divertimento e l’intrattenimento, la cultura e l’aperitivo, il teatro e il cinema, la musica e i concerti, il calcio e lo sport, i libri e la lettura, la bellezza e la competizione – pure la competizione, certo. Lo stress? Gli uomini d’industria e d’affari, quelli che rischiano giornalmente e lavorano magari sedici ore: non mi risulta che abbiano vite medie più basse. Più basse le hanno, semmai, i vigili che vanno a timbrare i cartellini in mutande, gente il cui obiettivo principe è quello di fregare il pubblico, e il prossimo, per poter trascorrere una vita senza un beneamato cappero da fare. Ma basta, allora, basta con queste scemenze dei rischi considerati e calcolati ciascuno per proprio conto, come se ciascun rischio rappresentasse uno “stato” a sé, un fenomeno isolato che si muove nel vuoto pneumatico. Mentre è vero l’opposto, è vero che attorno, mettiamo, al consumo di carne ruota un universo di altri consumi e atteggiamenti, alimentari e non solo. Ed è questo universo, semmai, a fare la differenza. Tutto è rischio. La vita è rischio. Anche essere un tantino sciocchi è un rischio: dovrebbero impararla, la lezione, da certe parti.

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