Stefano Rodotà (foto LaPresse)

Liberté, Egalité, Rodoté. Sembra l'autoparodia giacobina di Travaglio e invece sono i suoi originali fanculotti

Guido Vitiello
Liberté, Egalité, Rodoté. Tira aria di Rivoluzione francese, e la colpa è anche nostra: a furia di sentirsi chiamare giacobini, quelli del Fatto e di Libertà e Giustizia ci hanno presi in parola e si sono calati nel ruolo fino a vertici di sublime autoparodia.

Liberté, Egalité, Rodoté. Tira aria di Rivoluzione francese, e la colpa è anche nostra: a furia di sentirsi chiamare giacobini, quelli del Fatto e di Libertà e Giustizia ci hanno presi in parola e si sono calati nel ruolo fino a vertici di sublime autoparodia. Il 27 settembre – sestidì della prima decade di Vendemmiaio – il cittadino Padellaro, in risposta a un lettore che si firma “Oui Danton”, propone di creare un Comitato di salute pubblica presieduto dal cittadino Rodotà. Girondini e girotondini, sanculotti e fanculotti sono chiamati a raccolta. Applaudono a piè di patibolo la cittadina Bonsanti, sferruzzando, e il cittadino Barbacetto, in quota enragés. Annunziata e Landini manifestano qualche timido imbarazzo per l’eco robespierrista della formula, ed è per non spaventare i girondini (i conti con loro si regoleranno a tempo debito) che Padellaro il 2 ottobre rinnova l’appello concedendo che si potrà scegliere un altro nome. Purché sia chiaro lo spirito del Comitato, ben riassunto dal cittadino Gamelin ne “Gli dèi hanno sete”, il romanzo di Anatole France sul Terrore: “Non basta un tribunale rivoluzionario. Ce ne vuole uno in ogni città… che dico? In ogni comune, in ogni mandamento. Bisogna che tutti i padri di famiglia, tutti i cittadini si erigano a giudici”. I signori in mantello nero e cappello a piuma delle Procure siano affiancati da citoyens con le maniche rivoltate e la picca tra le mani.

 

Non è l’unico déjà-vu di questi giorni. Sulla pagina di Libertà e Giustizia, il 28 settembre, Roberta De Monticelli indirizza una lettera aperta alla ministra Boschi. Da quelle parti, ci avrete fatto caso, non chiudono mai le lettere, forse per facilitare l’opera di sorveglianza dei cittadini intercettatori. Titolo: “La Costituzione e la Grande Bellezza”. Illustrazione (non proprio nello stile di Jacques-Louis David): fotogramma del film di Sorrentino con nana, cocktail e insegna della Martini all’orizzonte. La chiusa ha un tono quasi materno: “E’ un vero peccato che lei sia così bella. Perché la sua riforma, e i suoi argomenti, rappresentano invece il volto di una democrazia sfigurata. Cioè della bruttezza senza riscatto di ciò che resterà della nostra Costituzione – del solo bene pubblico affidato alla nostra già così fragile coscienza civile. La sua grande, italiana bellezza, gentile Ministra, sarebbe solo l’ultima, sottile menzogna”. Può una donna bella incarnare una Costituzione brutta? La domanda suona alquanto demenziale, ma basta un viaggio nel tempo e tutto torna. Da un resoconto del 1790, ecco la descrizione dell’altare allestito a Campo di Marte per la Festa della Federazione: “Sul primo lato a sinistra, una bella donna allontana e dissipa le nuvole che la circondano, e la sua bellezza brilla in tutto il suo splendore. Sopra si legge: COSTITUZIONE”.

 

[**Video_box_2**]Guardando la Boschi, e forse immaginandola a seno nudo e in berretto frigio, la coscienza allegorica della cittadina De Monticelli è andata in cortocircuito, e la sua macchina del tempo ha fatto un balzo di un secolo, dal luglio 1790 al luglio 1890, data in cui apparve il “Ritratto di Dorian Gray”. La Costituzione più bella del mondo si trasforma in una laida megera, mentre il dolce viso della Boschi nasconde il patto col diavolo.

 

“Credetemi, amico, la rivoluzione annoia, dura troppo”, si lamenta un personaggio di Anatole France. Ma questo revival è uno spasso: che il Termidoro non arrivi mai.