Pietro Ingrao (foto LaPresse)

La demagogia involontaria di Ingrao e il suo paradiso ritrovato

Giuliano Ferrara
Pietro Ingrao è morto a cent’anni e si è portato quel viso intelligente e semplice, quello sguardo comunista e ciociaro, nel suo paradiso. I veri demagoghi non sanno di esserlo. Lui non lo sospettava nemmeno

I veri demagoghi non sanno di esserlo. Lui non lo sospettava nemmeno. Pietro Ingrao è morto a cent’anni e si è portato quel viso intelligente e semplice, quello sguardo comunista e ciociaro, nel suo paradiso finalmente ritrovato. Il secolo breve per lui è stato lungo. Ha avuto tempo per il fascismo dei littoriali, un fascismo popolare e colto intriso di buona vocazione provinciale; per la poesia di Pascoli (Togliatti era per Carducci, due stili in opposizione forte); per la parabola innamorata del cinema come arte intimista per le masse; per la costruzione, nel decoro come nell’equivoco, della Repubblica e della democrazia italiana; per le lotte sociali e politiche del lungo dopoguerra; per un giornalismo sentimentale ma efficace nell’Italia anni Cinquanta (la grande Unità); per il Parlamento e per lo stato (si rifiutò di continuare a fare il presidente della Camera, cedendo il passo a Napolitano, voleva tornare agli studi di teoria dello stato in un think tank di partito); per il tramonto del comunismo e il rimpiazzo liberale, mercatista, tecnologico, arruffone e crisaiolo ma efficace e trionfante.

 

Nel suo paradiso gli diranno: passa pure perché fosti intriso di tenerezza di vivere, amasti da patriarca rispettoso e timido tua moglie-tua compagna (Laura Lombardo Radice) e la progenie, nominando le figlie tutte con i colori (Chiara, Bruna, Celeste) del tuo arcobaleno, e per l’appunto la tua demagogia, la tua pretesa di “indiare” in terra progetto e partito (come direbbe Dante) fu sempre proclamata con ingenuità di tratto e animo ardente, guardando la luna (un suo recente memoriale celebra la sua storica propensione all’allunaggio ideologico). Un demagogo che non sa di esserlo perché è prima di tutto poeta contadino di un Novecento ermetico e malinconico (alcune sue liriche sono molto belle), perché dei canti pascoliani ha trattenuto il fanciullino, perché della realtà, del mondo com’è, non sa che farsene.

 

Bettino Craxi, che era un idealista della pura pratica, una volta me lo definì, ma con tono in fondo rispettoso e bonario, “un pasticcione”. Eppure Ingrao, come dirigente del Pci, mise in chiaro alcune cose: il diritto al dissenso, un’analisi modernista del neocapitalismo. Per queste chiarificazioni, che uscivano da una vocazione poeticamente confusa all’altrove, all’inedito, piacque molto a intellettuali come Rossanda e Pintor, a sindacalisti come Bruno Trentin, e fu adorato, come capo di una sempre meno definibile “sinistra comunista”, da masse militanti che quel pasticcio ideologico consideravano utile e anzi indispensabile.

 

Giorgio Amendola, che veniva da un antifascismo puro e nobile, e che aveva sublimato lo stalinismo colto e riflessivo di Togliatti in una versione allora possibile di socialdemocrazia e riformismo, non amava le licenze teoriche e lo scavo sociologico di Ingrao, ma era un’epoca di reciproco riconoscimento di valore, la gente pubblica non si detestava con lo strumento insidioso del disprezzo, preferiva l’ironia sottile o la lotta politica tra eguali, fatta di regole di lealtà e di spietatezze non offensive. Si era l’uno la nemesi dell’altro, ma in un contesto fraterno. Ingrao era l’incubo dei suoi giornalisti, quando dirigeva l’Unità, allora grande giornale di popolo e di cultura irregimentata: fissava le riunioni in orari antiromani, e sempre esigeva: “tu mi devi spiegare”, sempre diceva “voglio capire”, insomma la tirava molto in lungo per il cinismo naturale della professione del giornalismo oratorio e tribunizio di partito.

 

Dopo la fine del Pci, ha passato un quarto di secolo trattato da nobilissimo balocco delle idées réçues dell’utopismo postcomunista, ma significativamente è stato al gioco in modo riservato, solo per la parte che gli restava e che non immaginava di certo tanto lunga. Si fece testimone e memorialista, mise a tema la sua personale uscita dalla storia, si fece persona. Così la sua demagogia, che persuadeva l’anima senza convincere le maggioranze materiali, si fece in qualche senso più tenera e disperata, e il patriarcalismo diventò il suo status naturale. Grandi avventure di pensiero impossibile continuarono ad affascinarlo, gli intellettuali al servizio della classe, profondi e contorti, erano come sempre il suo sale di vita e i suoi migliori amici, aveva niente di accademico e di globale, era molto diverso dalla tigna di un Varoufakis, e gli va riconosciuto con amore di non essere stato mai slealmente violento con i suoi nemici naturali, gli italiani strani che hanno popolato gli incubi dell’ultima parte della sua vita. All’ultima festa centenaria, affetto dal declino naturale, non era presente fisicamente, e questo fu un inconsapevole capolavoro carismatico, un altro. E’ stato fino alla fine sempre più Ingrao, proprio un bel tipo di novecentista, e non banalmente un ingraiano.

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.