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Cappuccini verdi e inglesismi alla moda a Milano

Stefano Sgambati
Capire alla fashion week che chiamarla "Settimana della moda" è un arcaismo che copre chiunque di ridicolo. In ogni caso nessuna giornata può dirsi veramente cominciata se prima non si è ingollato un “Matcha”. Da segnalare: esiste una “Milan Fashion Week Survival Guide”.

Il pensiero post-moderno o forse solo cretino di vestirmi male apposta mentre tutti intorno a me sembrano impazziti e parlano di tonalità di foulard tipo “blu Prussia” e di “final touch” mi viene e mi abbandona nel giro di pochi istanti. Più che il senso del rispetto è la mancanza di coraggio a bloccarmi: potrebbe non accorgersene nessuno. Perché qualsiasi cosa diventa stile se è voluto. Tutto è poetica, quando si tratta di moda: chiunque è avanguardia. Perfino io.

 

Cose divertenti che ho imparato:

 

  • Si dice “Fashion Week”, punto. “Settimana della Moda” è un arcaismo: equivale a coprirsi di ridicolo in modo ineluttabile, con tragiche e conseguenti prese per il culo colossali, passaparola, colpi di gomito, risatine; come parlare di “mangiacassette” in un liceo, o simile, se avete presente.
  • “Jodhpur” è un tipo di pantalone, modello cavallerizza, invece il “caban” è un cappottino doppiopetto ispirato ai modelli delle divise militari europee ed è (o può essere) unisex (lo so perché ne ho provato uno, ma questa storia non la racconterò).
  • Nessuna giornata può dirsi veramente cominciata se prima non si è ingollato un cappuccino “Matcha”, la cui specialità è la colorazione verde, per tacere delle prodigiose capacità antiossidanti, anti-invecchiamento, digestive, dimagranti e drenanti, e il cui prezzo comunque non supera i due euro e qualcosa. Un rito inevitabile. Quanto a me, - ma è questione di sensibilità: non sto giudicando nessuno - devo ancora risolvere l’imbarazzo paralizzante di pronunciare la parola “Matcha” a un banchista di Corsico che è già in piedi da quattro ore alle otto del mattino senza sentirmi un colonizzatore sanguinario.

 

Altre cose che vale la pena segnalare: esiste una “Milan Fashion Week Survival Guide”, cioè un “giornalino” filologico per orientare gli stranieri in città che però, siccome tutto deve essere fico, è stato affidato nientemeno che a J.J. Martin, una famosa giornalista e “cool woman” del fashion system internazionale la cui rubrica più di successo si chiama “School of Sciura Journal”, che è proprio ciò che sembra, ovvero una guida allo stile delle signore milanesi chic.

 

Nel o nella Fashion Hub (la mia guerra lessical-gender è ancora in atto e sempre di più appare irrisolvibile, se perfino nel sopracitato giornalino lo stesso presidente della Camera nazionale della moda italiana, Carlo Capasa, nel suo editoriale prima parla di “Creazione di una hub” e poi, al rigo successivo scrive “vi invito a visitare il nostro temporaneo Fashion Hub”) c’è in effetti il cuore della Fashion Week, il meccanismo più interessante: il nuovo progetto a sostegno dei brand emergenti ha fatto sì che diciassette marchi italiani e stranieri venissero selezionati per presentare qui per la prima volta le loro collezioni di prêt-à-porter e accessori. Scopro un talento mostruoso e silenzioso, una voglia di fare e di arrivare che non ha niente a che vedere con l’azione inelegante di sgomitare e di accavallarsi: in questo edificio modernista e un po’ pop vivono quasi dieci ore al giorno stilisti e designer di età difficilmente superiore ai trent’anni che si occupano di moda da più di metà della loro vita, che la sera non si possono dare agli eventi mondani per la semplice ragione che la stanchezza la vince.

 

Le nuove idee, il modo di fare di domani parte da qui. È un’officina in attività, se ne sente il rumore. Faccio due chiacchiere con Flavia La Rocca, stilista romana, ciglia lunghissime e occhi antracite, che dagli uffici stampa di Prada e Valentino è passata a realizzare una propria collezione nel 2011. I suoi abiti già celebri hanno la caratteristica unica di essere “modulari”, sono cioè destrutturabili e ricomponibili in modi diversi grazie a zip nascoste per creare un guardaroba dinamico e potenzialmente infinito: i suoi pezzi sono stati scelti e indossati da personalità come Amber Valletta, Milla Jovovich e Susie Bubble, nonché magnificati da testate come il Telegraph. Lei sogna un negozio monomarca (attualmente il mercato che più sembra averla capita è quello straniero, soprattutto cinese) e che diventi “normale” il concetto che un abito possa essere composto e “pensato” non solo dal designer in origine ma anche dal cliente, dall’utilizzatore finale per così dire.

 

[**Video_box_2**]Di nuovo fuori dall’Hub mi sembra di ripiombare in un film di Fritz Lang e mi devo sbrigare a rimettere gli occhiali da sole: le tonalità di colore sono allucinate, vagamente fuori gamma. Se non altro, come scriveva il buon Dostoevskij, “a tutto si abitua quel vigliacco ch’è l’uomo” e infatti rallento e quasi mi aggrego, anziché scemare verso la metro terrorizzato, e mi fermo ad ascoltare due tizi, un koreano e un tedesco coi capelli viola e un gigantesco materassino gonfiabile appoggiato in terra, che comunicano nei rispettivi idiomi, le frasi tradotte in tempo quasi reale con voce robotica dagli immancabili Apple Watch schierati come baionette.

 

All’improvviso niente mi sembra più importante di un cappuccino “Matcha”.

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