Una manifestazione contro #labuonascuola

La deportazione all'italiana e la menzogna delle parole nel "dramma" dei precari della scuola

Mario Sechi
L’impero dei piagnoni colpisce ancora. Erano docenti precari, li hanno assunti. Il cervellone elettronico del ministero ha detto che alcuni di loro, settemila circa, dovranno spostarsi per andare là dove c’è il lavoro, la cattedra. Da nord a sud, dove ci sono gli alunni.

L’impero dei piagnoni colpisce ancora. Erano docenti precari, li hanno assunti. Il cervellone elettronico del ministero ha detto che alcuni di loro, settemila circa, dovranno spostarsi per andare là dove c’è il lavoro, la cattedra. Da nord a sud, dove ci sono gli alunni. I docenti avranno il posto fisso, saranno illicenziabili, stragarantiti, con le ferie più lunghe e l’orario più comodo che esista. Ma non basta, boys and girls, loro sono come gli irriducibili delle curve degli stadi, issano gli striscioni, rivendicano, manifestano, sono portatori di “diritti” con licenza fissa di scordare i doveri. Volevano il posticino sotto casa, tutto il parentado presente alle feste comandate, alzate i calici che c’è lo zio Raffaele, sagre e balli in piazza, il pic nic campestre in primavera, il dolce inverno del Mezzogiorno senza ghiaccio, neve e nebbia, la costiera e l’impepata di cozze, la siesta estiva e ‘o sole mio sta in fronte a te.

 

Per alcuni non sarà più così. Come altri milioni di lavoratori e famiglie di italiani, dovranno spostarsi dal paesello natìo e affrontare il viaggio della vita in un altro luogo. It’s life, ma non in Italì. Prima, durante e dopo l’assunzione hanno vestito la maschera dei “deportati”. Così titolava Repubblica (“I nuovi docenti: “Ho detto sì, ma mi sento deportata”), così titola ancora oggi Il Fatto Quotidiano (“Le grandi riforme: insegnanti deportati e Jobs Act fuorilegge”), così i telegiornali e le radio e la rete, certo, con i treni dei deportati della scuola. E tutti usano quella parola, “deportazione”, come se fosse normale, senza contrappuntare, spiegare che si tratta di un uso rivoltato e rivoltante della parola. Leggete la cronaca. Direzione Mediterraneo. Studiate la storia. Destinazione Auschwitz. Tornate sui banchi di scuola. Vocabolario Treccani. Deportazione: “Condannare alla pena della deportazione; trasportare, accompagnare il condannato nel luogo stabilito per la deportazione: al tempo degli zar, i condannati politici venivano spesso deportati in Siberia. Per estensione, trasportare nel luogo di pena, quando questo sia fuori dei confini della patria: Pellico fu deportato nella fortezza dello Spielberg; anche, trasferire coattivamente in campi di lavoro o di concentramento (talora anche di sterminio) lontani dalla madrepatria gruppi o masse di cittadini, perché invisi o sospetti, o come misura di carattere politico o militare, in periodo bellico o d’occupazione: durante la seconda guerra mondiale, ingenti masse di Ebrei sono state deportate nei Lager nazisti”.

 

[**Video_box_2**]Ecco, cari maestrini e professoroni, questo significa deportare. Le parole sono le cose, il loro uso scombinato fa schizzare da tutte le parti il frullato avariato dei cervelli. I piagnoni sono il veicolo ideale del peggiorismo, del va tutto male e, vi prego, l’assegno me lo versate qui, ecco il codice iban, puntuali, mi raccomando. Chi sono? C’è una definizione che mi pare perfetta per il caso clinico, ancora Treccani: “In alcune regioni, nel passato, persona che prendeva parte, per lo più a pagamento, alle lamentazioni funebri”. Il loro canto (retribuito) sale durante lo sfoglio dei giornali, la visione dei tg, traspare nell’incontinenza verbale dei partitanti, palpita nell’aumma aumma ministeriale che fa pastrocchi per ridurre la invece sacrosanta e necessaria mobilità di un paese immobile che conta oltre 3 milioni di disoccupati, di cui la metà è al Sud. Che bella, l’invenzione della deportazione all’italiana. Maschere. Senza carnevale. Sagome per la penna  di Pirandello: “Nulla atterrisce più di uno specchio una coscienza non tranquilla”.

 

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