Un gruppo di migranti cammina lungo il confine tra Serbia e Ungheria, chiuso da 175 chilometri di filo spinato (foto LaPresse)

A ideologo, ideologo e mezzo

Redazione
Gesù bambino, Shoah: sull’immigrazione non solo i populisti straparlano.

Il confronto sul tema dei flussi migratori si avvita sempre di più in una contrapposizione irrisolvibile tra emozioni che vengono alimentate da visioni pregiudiziali che si presentano come postulati morali indiscutibili messi al servizio di ideologie totalizzanti. E’ costruito in questo modo l’appello identitario dei cosiddetti “populisti” che rifiutano di esaminare gli elementi oggettivi e storici di un fenomeno complesso per limitarsi ad amplificare e a sfruttare le preoccupazioni che suscita. Però non è meno fuorviante la risposta altrettanto ricattatoria di chi interpreta fatti concreti, misurabili e che bisognerebbe governare con razionalità come il risultato di una colpa, di un peccato originale dell’occidente che quindi non avrebbe neppure il diritto di cercare soluzioni ai problemi che l’emigrazione incontrollata pone alle società e agli stati dei paesi “ricchi”.

 

Ogni controllo, ogni tentativo di selezione sui flussi in ingresso, persino la difesa da rischi di contagio epidemico o di infiltrazioni terroristiche, in questa visione assolutistica diventa angheria e sopraffazione dei forti sui deboli. Appiccicare l’etichetta razzista a chiunque esprima una preoccupazione è un modo per escludere alla radice qualsiasi discussione costruttiva. Quando poi si arriva a paragonare le tragedie del mare alla Shoah, indicando quindi un’inaccettabile radice nazista in ogni politica di gestione e contenimento del fenomeno migratorio, come ha fatto da ultimo la portavoce per il sud Europa dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, oltre a dire una bestialità che non riconosce i caratteri fortunatamente irripetibili dello sterminio sistematico degli ebrei, si cala una saracinesca su ogni possibilità di dialogo.

 

Lo stesso vale per le farneticazioni di Aaqil Ahmed, responsabile dei programmi sulla religione della Bbc, che ha paragonato gli immigrati respinti a Calais agli inquilini della grotta di Betlemme e i governi di Francia e Gran Bretagna a Erode autore della strage degli innocenti. Non c’è da stupirsi se poi, in reazione a queste estremizzazioni “politicamente corrette” del concetto, tutt’altro che elementare, di integrazione, c’è chi – come l’opinionista americana Ann Coulter –  prova ammirazione persino per la chiarezza non ipocrita delle invettive rodomontesche di Donald Trump contro l’immigrazione ispanica.

 

Proprio perché è così estesa e coinvolge persone e istituzioni rispettabili, vale la pena di esaminare i caratteri di questa ideologia dell’accoglienza indiscriminata. Partendo dall’indiscutibile principio di eguaglianza di tutti gli esseri umani, tutti figli di Dio per i credenti, persone detentrici di diritti inalienabili per tutti i democratici, si fa un salto logico sostenendo che esso postula il dovere di garantire questi diritti (che sono loro negati o limitati nelle zone di origine) da parte dell’occidente. L’occidente sarebbe in realtà il responsabile unico di tutte le tragedie del mondo per la sua superiorità economica e tecnologica e per le sue storiche responsabilità imperiali, coloniali e neocoloniali, quindi oggi deve puramente e semplicemente fare ammenda delle sue colpe accogliendo senza condizioni chiunque ne faccia richiesta.

 

La civiltà occidentale non avrebbe il diritto morale di salvaguardare la sua civiltà, le sue radici giudaico-cristiane, la sua faticosa costruzione della democrazia e dello stato sociale, e, soprattutto non ha titolo per intervenire sugli epicentri del fenomeno migratorio, dal terrorismo razzista e cristianofobo che insanguina la Nigeria, alle milizie incontrollate che si combattono in Somalia e in Libia, all’espansione del Califfato in Siria e Iraq, alle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani nella più totale indifferenza per la loro sorte. Questo complesso di colpa che dovrebbe paralizzare le democrazie, e che in realtà ne indebolisce in modo parossistico le capacità di reazione e di intervento, è la base ideologica dell’accoglienza indiscriminata, e si presenta come l’antagonista simmetrico delle tesi ultraidentitarie che rifiutano di considerare la realtà di un fenomeno concreto e di tali dimensioni da non poter essere cancellato o esorcizzato dall’erezione di impossibili frontiere sul mare.

 

[**Video_box_2**]In mezzo a queste estremizzazioni irrazionali, lo spazio della politica, cioè di una gestione complessa e lungimirante di un problema epocale, si fa sempre più ristretto, il che porta a una sensazione di impotenza che ha l’unico effetto di aggravare le difficoltà e le contraddizioni. Lunedì, seppur timidamente, il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha detto al Corriere della Sera: “L’immigrazione non è una catastrofe improvvisa bensì un fenomeno che sarà permanente per i prossimi 10, 15 anni. Può cambiare l’entità del flusso… ma la sfida va affrontata a viso aperto: l’immigrazione va gestita e regolata con i suoi rischi e le sue opportunità. Non possiamo cambiare la geografia né infangare la nostra storia di paese civile”. Sulla teoria, ci siamo. Adesso però chi ancora crede nella superiorità della ragione fredda (che non significa insensibile ai valori umanitari) sull’esasperazione emozionale cavalcata da ideologi spesso improvvisati, dovrebbe combattere una difficile ma indispensabile lotta su due fronti, per allargare lo spazio per una iniziativa politica internazionale di lungo periodo che non si può improvvisare ma nemmeno procrastinare in eterno.