Massimo D'Alema e Walter Veltroni (foto LaPresse)

Massimo e Walter, la rottamazione parallela dei due vecchi della politica

Stefano Di Michele
La vigna non è certo un giardinetto, la sala di montaggio poi…

Se vent’anni fa, al momento della loro maggior gloria, il problema cinematografico era: “Cosa fare a Denver quando sei morto”, vent’anni dopo la questione è più o meno messa così: “Cosa fare a Roma quando sei rottamato” – ché il Rottamatore passò, da scalmanato visigoto senza pietà passò, e tu eri lì (e sei stato costretto a dire di sì). E’ pur essa un’arte, saper gestire la rottamazione. D’Alema (Roma, 1949) e Veltroni (Roma, 1955), sono stati per decenni il Massimo Tiberio Gracco e il Walter Gaio Gracco del tardo/post comunismo italico, così che ogni militante di sinistra, rimirandoli orgoglioso, poteva con festevole orgoglio annunciare: “Ecco, i nostri gioielli!”. E lo sono stati, pur se con svariate ricadute nell’ambito sanguinoso degli Orazi e dei Curiazi. Sorte quasi identica, per decenni: la direzione dell’Unità prima a uno poi all’altro, la segreteria del partito prima a uno poi all’altro, Palazzo Chigi all’uno (presidente) e all’altro (vicepresidente), un ministero sia all’uno (Esteri) sia all’altro (Cultura). I libri, sia quelli scritti da uno sia quelli scritti dall’altro – ma con alterne valutazioni librarie: per esempio, se fanno una biografia di D’Alema la intitolano “Il peggiore”, se fanno il libro-intervista con Veltroni ha per titolo “La bella politica”. Walter per primo, con fervore innovativo, sdoganò quale critico “Quel gran pezzo dell’Ubalda ecc. ecc.”; fece felice resoconto, Massimo, del viaggio berlingueriano a Mosca, ove si stabilì che particolarità del socialismo reale “è che le caramelle hanno tutte la carta attaccata”. Entrambi, poi, sono stati possibili e ottimi candidati al Quirinale. I loro anni al vertice li hanno attraversati ognuno col proprio stile, lo stesso adesso, negli anni dal vertice lontani: D’Alema quasi il gatto soriano di Trilussa, “nun porto rispetto / nemmanco ar padrone, / perché all’occasione / je sgraffio la mano”; Veltroni quasi l’anatra evocata da Duddù La Capria, che scivola con leggerezza sull’acqua “e non fa apparire alla superficie il faticoso lavoro che è costata”, quella leggerezza, alle sue zampette che si muovono nell’ombra, ove l’occhio non giunge. L’uno la lotta espone come bandiera gloriosa, l’altro la lotta cela come biancheria stropicciata.

 

Così uguali, così diversi: tra di loro, ma anche agli occhi altrui – tanto che, per dire, socialmente e tra i meglio compagni la rivaluta Ubalda non ha avuto lo stesso impatto dell’elegante Ikarus. In Massimo la rottamazione ha adesso un tratto diverso, forse di maggiore disperazione, che in Walter: uno non trova pace neanche tra i filari delle vigne di casa sua, l’altro affronta baldanzoso persino le scene cinematografiche. Uno tiene il punto, l’altro sceglie l’essere più laterale. “Comunismo e libertà sono stati incompatibili”, disse Veltroni. “Sono un militante del Pci e non ho nulla da dichiarare”, fece sapere secco D’Alema.

 

Massimo, per il giornalista, ha sempre un ghigno mai trattenuto; Walter, per lo stesso giornalista, ha sempre un sorriso non negato – e la figura mitologica di Berlinguer si è in qualche modo culturalmente intestata. Così, ognuno di loro – convergenti e paralleli senza mai incontrarsi – affronta in modo diverso i giorni della rottamazione, quando il carattere che determinava quelli della gloria ancor più si accentua (ché intanto, come da nota canzone, “gli anni passano, i bimbi crescono / le mamme imbiancano”). Sullo stesso giornale, persino. Così, se per D’Alema sulle pagine del Fatto è tutto e solo quotidiana crocifissione di coop rosse e vin rosè, bottiglie vendute e fondazione finanziata, il piacere supremo dell’assalto dei nemici e la pugnace sua resistenza, sempre sul Fatto ecco comparire lunghissima e bella intervista a Veltroni sul suo ultimo film, “I bambini sanno”, con felicissime domande tipo “Che cosa distingue il bambino dall’adulto?” e “Chi era il piccolo Walter Veltroni?” – un po’ Comencini, un po’ Rodari.

 

L’ormai sessantacinquenne e l’ormai sessantenne – in foto in bianco e nero compaiono scamiciati, con fitta zazzera e baffo nero, alle spalle il Colosseo e sopra la testa la bandiera comunista – approdano così alla condizione di rottamati in maniera del tutto opposta (anzi, quasi a nessuno viene da associazione la parola rottamazione, che come lettera scarlatta marchia D’Alema, a Veltroni: al suo secondo film, chissà quanti romanzi, e ancora nei mesi scorsi sembrava perfetto per il Quirinale, perfettissimo per la Rai). La vigna non è certo un giardinetto, ma inevitabilmente un po’ lo evoca; mentre la sala di montaggio quasi una sorta di “second life” promette. Del resto, la stessa “L’arte della guerra” di Sun Tzu, cara a D’Alema, crudelmente avverte: “Ciò che dà valore alla guerra, è la vittoria”; Borges, la cui prosa de “I giusti” Veltroni scelse quale poetica sintesi del suo programma appena eletto segretario, concede: “Sei nuvola, sei mare, sei l’oblio. / Sei anche tutto quello che hai smarrito”. E quando la rottamazione batte rumorosa, è forse un ottimo progetto di resistenza e possibilità.

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