Antony Ray Hinton, alla lettura della sentenza che lo ha scagionato

Il miglio verde degli innocenti. "Nessuno tocchi Caino", perché Abele non è infallibile

Rocco Todero
E' arrivata dagli Stati Uniti la notizia dell’ennesimo errore giudiziario che ha costretto un cittadino dell’Alabama a trascorrere ben 28 anni dentro il braccio della morte in attesa di percorrere il miglio verde per essere giustiziato. Antony Ray Hinton è riuscito solo di recente a convincere il tribunale della sua innocenza.

Qualche giorno fa è arrivata dagli Stati Uniti la notizia dell’ennesimo errore giudiziario che ha costretto un cittadino di colore dell’Alabama a trascorrere ben 28 anni dentro il braccio della morte in attesa di percorrere il miglio verde per essere giustiziato. Antony Ray Hinton, arrestato per omicidio nel 1985 e condannato alla pena capitale, è riuscito solo di recente a convincere il tribunale della sua innocenza. Le cronache giornalistiche danno conto dell’assenza di qualunque certezza sulla sua colpevolezza ma, ciononostante, Hinton è stato letteralmente torturato dall’attesa dell’esecuzione della condanna a morte, sancita, annunciata e minacciata tutti i giorni per 30 interminabili anni. La storia di Hinton conferma, ancora una volta, che la contrarietà alla pena di morte trova il suo fondamento nella consapevolezza della perenne fallibilità di qualsiasi giudizio umano, ancor prima che in considerazioni umanitarie e rieducative. Nessuno tocchi Caino perché Caino è un essere umano, d’accordo; lo stato non ha il diritto di comminare la morte, la pena capitale non rieduca alcunché. Tutto condivisibile. Ma nessuno tocchi Caino, sopratutto, perché non può esservi giudice che sancisca con certezza assoluta e definitiva la colpevolezza, sino al punto da negare la revisione di un processo che possa salvare la vita dell’imputato.

 

Kant non aveva timore di spiegare che la giustizia retributiva esige la morte per chi ha soppresso la vita, ma non poteva tenere in debito conto, evidentemente, le conquiste moderne del fallibilismo gnoseologico. Un parolone, il fallibilismo gnoseologico, per significare con Ferrajoli la medesima lezione di Popper e cioè che “La verità di una teoria scientifica e più in generale di qualunque discorso o proposizione empirica è sempre, insomma, una verità non definitiva ma contingente, non assoluta ma relativa allo stato delle conoscenze ed esperienze compiute in ordine alle cose di cui si parla”.

 

Del resto è la stessa democrazia, quale regime di governo che ripudia le decisioni irreversibili e che si regge su un moderato scetticismo della ragione, a essere incompatibile con la pena di morte. Lo ha spiegato bene Gustavo Zagrebelsky (il giurista, lo studioso, non l’attivista politico ideologico degli ultimi anni), allorché ha scritto che la democrazia implica la reversibilità di ogni decisione e che le soluzioni definitive ai problemi, quelle che non consentono ripensamenti o aggiustamenti, sono proprie dei regimi di giustizia e verità uniche e ferme.

 

Fatta eccezione per gli Stati Uniti, infatti, la pena di morte sopravvive per lo più nei paesi dove lo stato è etico per definizione e all’interno di quelli in cui foro intero e foro esterno si confondono senza alcuna distinzione.

 

[**Video_box_2**]La presunzione di accertare la verità può rivelarsi fatale. Il processo giudiziario presenta i tratti dell’esperimento scientifico allorché tenta di riprodurre la rappresentazione di un accadimento storico, ma la sua peculiarità consiste nell’essere quel fatto irripetibile, capace di proiettare nel presente spesso solo tracce indecifrabili o non univocamente significative. Solo l’umiltà della ragione, quella che non degenera in esasperato razionalismo, dunque, può accostarsi alla verità processuale con la cautela che la tutela della vita e della libertà reclama.

 

Scott Turow, il famosissimo autore di legale thriller, in un bellissimo saggio (“Punizione suprema”, 2003) all’interno del quale racconta la sua esperienza di membro della commissione dello stato dell’Illinois nominata dal governatore George Ryan per studiare la validità e l’efficacia della pena di morte, descrive lucidamente l’umana impossibilità di condurre indagini e celebrare processi azzerando la probabilità di commettere errori e seminare lacune. Il punto non è quello di giustificare moralmente la pena di morte per pluriomicidi irrecuperabili al consorzio sociale. Il vero problema non è questo, dice Turow, “Il nocciolo della questione è se sia possibile costruire un sistema che punisca solo i rari casi giusti, evitando di condannare anche persone innocenti o che non meritano il castigo”.  Questo sistema, forse, non è di questo mondo e Antony Ray Hinton ha sacrificato 30 anni della sua vita per dimostrarcelo ancora una volta.

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