Un soldato ucraino su un convoglio militare lo scorso 27 febbraio nella zona di Debaltsevo, durante il ritiro dei mezzi di artiglieria pesante previsto dagli accordi di Minsk-2 (foto LaPresse)

Giocare col fuoco in Ucraina

Massimo Boffa

Fornire a Kiev “armi letali” per combattere la ribellione nei territori dell’est Ucraina sarebbe un passo molto grave nell’escalation del conflitto tra l’occidente e la Russia. La raccomandazione è stata indirizzata alla Casa Bianca e ai governi alleati da alcuni autorevoli think tank americani.

Fornire a Kiev “armi letali” per combattere la ribellione nei territori dell’est Ucraina sarebbe un passo molto grave nell’escalation del conflitto tra l’occidente e la Russia. La raccomandazione è stata indirizzata alla Casa Bianca e ai governi alleati da alcuni autorevoli think tank americani (Brookings Institution, Atlantic Council, Chicago Council) in un rapporto congiunto reso pubblico il 2 febbraio, “Preserving Ukraine’s Independence, Resisting Russian Aggression: What the United States and Nato Must Do”. In particolare, il presidente Barack Obama viene esortato a stanziare, in aiuti militari, un miliardo di dollari l’anno per i prossimi tre anni. Fino a ora Washington, che pure fornisce a Kiev assistenza militare “non letale” (giubbotti antiproiettile, visori notturni, kit di pronto soccorso), è stata contraria. Ma è evidente che, su questo delicatissimo punto, l’Amministrazione è divisa e sotto pressione: il nuovo segretario alla Difesa, Ashton Carter, ad esempio, durante un’audizione davanti al Congresso si è detto “molto incline” ad armare Kiev. Chi invece è nettamente contrario a imboccare questa strada è gran parte dei governi europei, Germania in testa, che temono, giustamente, un aggravamento della crisi, con esiti potenzialmente fuori controllo.

 

Il principale argomento invocato da chi vorrebbe armare Kiev è quello della deterrenza: fornire “all’esercito ucraino mezzi sufficienti da rendere il prezzo di un’ulteriore aggressione così alto che Putin e l’esercito russo siano dissuasi dall’intensificare i combattimenti”. E’ tuttavia assai improbabile che questo, auspicato, sarebbe il reale effetto della decisione. Mosca, a torto o a ragione, considera la crisi ucraina una minaccia diretta alla propria sicurezza, una sfida geopolitica orchestrata dall’occidente, la più pericolosa dalla fine della Guerra fredda. Inoltre ha fatto chiaramente capire che non permetterà la sconfitta manu militari delle regioni ribelli. Così stando le cose, tutto lascia intendere che un aiuto militare a Kiev, lungi dall’ammorbidire la politica del Cremlino, provocherebbe una contro escalation, rendendo la guerra ancora più distruttiva. Stiamo parlando di una guerra che ha già fatto più di 5.500 morti, molti dei quali tra la popolazione civile, e un milione di profughi. Ma il rischio è che questo bilancio provvisorio possa drammaticamente impennarsi.

 

Molti esperti militari sono inoltre dell’opinione che nuove armi non ribalteranno le sorti della guerra. L’esercito di Kiev ha subìto le sue sconfitte non tanto per mancanza di tecnologia bellica, ma perché è male organizzato e demoralizzato da una guerra fratricida. La “mobilitazione generale” decisa dal governo ha incontrato crescenti difficoltà e la renitenza alla leva è diventata un fenomeno assai diffuso. E il problema dell’indisciplina tra le forze combattenti deve essere assai serio, se la Rada, il Parlamento ucraino, ha appena votato una legge che inasprisce le pene nei confronti dei soldati che non obbediscono agli ordini e perfino autorizza a sparare ai disertori. Per di più, contro i separatisti non combatte solo l’esercito regolare: ci sono milizie private, ci sono gruppi militari di estrema destra. In che mani andrebbero a finire le “armi letali”? Gli ucraini non hanno bisogno di nuove armi, hanno bisogno che le armi, da entrambe le parti, vengano messe a tacere e che venga trovata una soluzione negoziata al conflitto.

 

Questo è il vero punto. Oggi a Kiev esiste un “partito del negoziato”, del quale è parte il presidente Petro Poroshenko, e un “partito della guerra”, che può contare nelle proprie fila il primo ministro Arseniy Yatsenyuk, uscito rafforzato dalle ultime elezioni politiche, oltre a una variegata galassia di forze ultranazionaliste, che minacciano un “altro Maidan” nel caso in cui il governo venisse a patti con i ribelli. Mandare armi darebbe, da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, un inequivocabile segnale di incoraggiamento a questo partito della guerra, che si propone di risolvere sul campo di battaglia il problema dell’insorgenza nelle province orientali e, dunque, anche il problema del futuro assetto dello stato ucraino. E poiché una vittoria militare è altamente improbabile, la reale prospettiva è quella di una prosecuzione a oltranza della guerra civile. L’occidente dovrebbe, al contrario, fare a Kiev quel che chiede, giustamente, al Cremlino di fare a Donetsk: tenere a freno le spinte più belliciste dei propri protetti e creare le condizioni per una composizione politica del conflitto. In situazioni così critiche, è importante saper rinunciare a rappresentazioni unilaterali della realtà, e riconoscere che gli ostacoli alla pace non vengono solo da Mosca. Chi vuole bene all’Ucraina deve avere il coraggio di parlare un linguaggio di verità: dire a Kiev che non può vincere e che deve trattare.

 

Conosco l’obiezione: questo finirebbe per premiare “l’aggressione” e incoraggiare avventure espansioniste in altri teatri. Ma è un’obiezione che non tiene in conto le specifiche caratteristiche della crisi ucraina e attribuisce all’avversario intenzioni di comodo. Se si vuole giudicare a mente fredda, infatti, non risultano indicazioni fondate che la Russia intenda minacciare i paesi della Nato. Non è nemmeno probabile che voglia annettersi le regioni del sud-est ucraino, come pure poteva apparire credibile un anno fa, all’indomani della annessione della Crimea. Gli eventi successivi hanno mostrato che la Crimea è stata un episodio grave, ma unico. Con ogni evidenza, Mosca non intende “ricreare l’impero sovietico”, come si sente dire con superficialità, ma frenare quella che ha percepito come un’espansione della Nato fino ai propri confini.

 

Per ragionare su una soluzione politica, è necessario riprendere dall’inizio il dossier ucraino, lasciando da parte le semplificazioni, come se le ragioni stessero tutte da una parte e i torti dall’altra. E’ vero che la Russia, con l’annessione della Crimea, ha compiuto un atto grave, ridisegnando in Europa i confini di uno stato sovrano (a essere onesti, non è però la prima volta: anche i confini della Serbia furono ridisegnati dai bombardamenti Nato). E l’occidente non potrà semplicemente prenderne atto. Ma anche il colpo di stato di Kiev del 22 febbraio 2014, che ha rovesciato il governo ucraino e da cui ha avuto inizio tutta la sequenza di fatti che ha portato all’attuale situazione, è stato un atto violento. Il problema non sta tanto nella legittimità formale (dubbia) di quel che è accaduto a Kiev. Sta piuttosto nel fatto che lo stato ucraino si reggeva su un delicatissimo equilibrio: le regioni sud-orientali sono storicamente legate alla Russia, quelle occidentali all’Europa centrale. Avere voluto spezzare in modo unilaterale quel delicato equilibrio ha provocato tutta la sequenza di gravi avvenimenti che è sotto i nostri occhi. E finché un equilibrio duraturo non sarà ritrovato, la crisi non si risolverà.

 

Non è utile sorvolare sulla reale posta in gioco che, per la Russia almeno, non è l’ingresso di Kiev nell’Europa ma nella Nato. C’è chi dice che l’Ucraina è un paese sovrano e ha il diritto di scegliere le proprie alleanze. Suona semplice, ma non lo è, giacché l’Ucraina, come ogni stato sovrano, non ha il diritto di ignorare la geografia e la storia. E se lo fa, le conseguenze possono essere tragiche. Quando, nel 1961, Cuba decise di schierare sul proprio territorio missili sovietici, il presidente degli Stati Uniti non considerò neppure per un attimo che l’isola caraibica fosse uno stato sovrano, libero di fare quel che voleva, e ordinò invece un blocco navale, compì cioè un atto di guerra, giustificato dal punto di vista di un leader che aveva a cuore la sicurezza del proprio paese. Ma il valore strategico di Cuba per la sicurezza degli americani non era allora certo superiore a quello dell’Ucraina oggi per la sicurezza della Russia.

 

[**Video_box_2**]Una soluzione duratura della crisi dovrà dunque, realisticamente, tenere conto di diversi fattori: della legittima aspirazione degli ucraini a una maggiore integrazione economica con l’Europa, dell’eterogeneità della loro nazione, con la diversa sensibilità delle genti del Donbass, e anche degli interessi del potente vicino russo. Altrimenti sarà quasi impossibile mantenere l’Ucraina unita. Circolano, in modo non ufficiale, le condizioni alle quali la Russia potrebbe verosimilmente accettare una composizione del conflitto: assicurare l’integrità territoriale dell’Ucraina, concedere autonomia alle province dell’est, garantire la neutralità militare del paese (niente adesione alla Nato). Quanto alla Crimea, è improbabile che si riesca a trovare un accordo: ma la situazione de facto potrebbe restare congelata, senza il riconoscimento de iure da parte della comunità internazionale (un po’ come l’annessione dei paesi baltici nell’Urss, che non fu mai riconosciuta ufficialmente dall’America). Quale è invece la soluzione che ha in mente l’occidente? Se l’obiettivo è solo quello di proseguire, e magari vincere, la prova di forza, senza indicare un possibile compromesso, il rischio è che l’attuale conflitto divenga ancora più sanguinoso, e che l’equilibrio geopolitico dell’Europa ne risulti durevolmente destabilizzato.

 

E’ anche necessario un più generale ripensamento dei rapporti con la Russia. La crisi ucraina, infatti, viene da lontano. Dopo il crollo dell’Unione sovietica, gli occidentali, e in particolare gli Stati Uniti, hanno perso una grande occasione per costruire una solida partnership con Mosca fondata sul riconoscimento dei comuni interessi. Invece di vedere nella Russia il partner strategico con cui condividere le responsabilità del governo del mondo, hanno preferito considerarla come il perdente della Guerra fredda, come un avversario geopolitico, ignorando le sue preoccupazioni e avviando la progressiva espansione della Nato verso est. Questo errore di prospettiva si è aggravato dopo che Vladimir Putin, nel 2000, è stato eletto presidente e ha avviato una più assertiva politica interna e internazionale.

 

Troppo spesso ci si contenta di dare, sugli anni di Putin, interpretazioni superficiali. Troppo spesso si sottovaluta il fatto che la sua grande popolarità in patria, e anche la sua statura di leader, sono legate al modo in cui, dopo il caos degli anni Novanta e lo strapotere degli oligarchi, ha saputo restaurare l’autorità dello stato. Aveva ereditato un paese stremato, lacerato da spinte centrifughe, divenuto irrilevante sul piano internazionale, e ha invertito la tendenza. Tutto questo non può essere liquidato genericamente come il contrassegno di una politica “autoritaria” e “antidemocratica”. Tanto più che così si dimentica un fatto, che può sembrare paradossale: di rado, nella loro storia plurisecolare, i russi hanno goduto di maggiore libertà e benessere che negli anni di Putin. Questo non vuol dire che in Russia non vi siano seri problemi nella costruzione di un compiuto stato di diritto. Ma vuol dire che, se si vuole dare un giudizio storico e non fermarsi solo alla superficie della cronaca, siamo di fronte a una evoluzione che merita di essere apprezzata. Non ha molto senso, infatti, da un punto di vista storico, paragonare, quanto alle libertà, Mosca a Londra o a Parigi o a New York; ha più senso invece paragonare la Mosca di oggi a quella di ieri o dell’altro ieri: e il confronto è tutto a vantaggio degli anni di Putin. E anche la politica di difesa dei valori della tradizione spirituale e religiosa (che riprende molti dei temi dell’ultimo Solzenicyn) meriterebbe di essere valutata con maggiore rispetto, e non solo come pretesto per campagne di indignazione.

 

In Russia, insomma, l’occidente sembra avere puntato sul cavallo sbagliato. Ha scelto come interlocutore privilegiato non il leader che rappresenta, nel bene e nel male, gli orientamenti di quel popolo, ma minoranze radicalizzate, che godono in patria di scarso credito. Ha dato così l’impressione di puntare non su una evoluzione democratica (il consenso democraticamente espresso finora è andato sempre a Putin), ma su un “regime change”, cioè su una pericolosa avventura, che certamente non porterebbe al Cremlino un presidente più amico dell’occidente e che probabilmente getterebbe nel caos il più grande paese del mondo.

 

Pubblichiamo la versione italiana di un saggio apparso con il titolo “Playing with fire” sul numero 47 (marzo) di Longitude, rivista di analisi delle relazioni internazionali.

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