AI primi di marzo Netanyahu parlerà al Congresso degli Stati Uniti. Poi, il 17 marzo, correrà per le elezioni di Israele

Quella faccia tosta di Bibi

Giulio Meotti

Era il 1997 quando un giornalista di Haaretz, Ari Shavit, scrisse un pezzo intitolato “L’anno dell’odio per Bibi”. Quell’odio dura da vent’anni. Ai primi di marzo Benjamin Netanyahu parlerà per la terza volta al Congresso degli Stati Uniti.

Era il 1997 quando un giornalista di Haaretz, Ari Shavit, scrisse un pezzo intitolato “L’anno dell’odio per Bibi”. Quell’odio dura da vent’anni. Ai primi di marzo Benjamin Netanyahu parlerà per la terza volta al Congresso degli Stati Uniti. E sarà un record, perché l’unico leader straniero a cui è stato concesso un tale onore è stato l’inglese Winston Churchill. Pochi giorni dopo, Netanyahu andrà a elezioni. E se venisse rieletto batterebbe un altro record: sarebbe il primo ministro israeliano più a lungo al potere, anche più del patriarca David Ben Gurion che dominò gli anni Cinquanta e Sessanta.

 

I detrattori di Bibi lo chiamano “l’Illusionista”. Parla un inglese perfetto, senza accenti ebraici. E’ profondamente influenzato dalla sua lunga stagione americana, prima da laureando del Mit di Boston (doppia laurea, Architettura e Gestione aziendale), poi da businessman, infine da ambasciatore alle Nazioni Unite. E come molti leader americani, l’israeliano Netanyahu è una contraddizione vivente. Bibi si dice difensore della famiglia, ma vanta tre matrimoni. Considerato vicino agli ebrei religiosi, ma non fa mai sfoggio di devozione. E’ l’unico primo ministro israeliano nato dopo la fondazione dello stato, ma ha trascorso metà della sua vita all’estero. Oltranzista a parole e nei libri, governa da pragmatico. Vuole prevenire un nuovo Olocausto, ma sulla stampa si accumulano le sue piccinerie, come “dimenticarsi” sistematicamente di pagare i conti al ristorante. E’ nato sugli schermi della Cnn, ma passerà alla storia come il primo ministro israeliano con il peggior rapporto con la stampa (alla Knesset c’è anche una legge contro il quotidiano a lui vicino, Israel Hayom).

 

La sua è una grande saga familiare, quella dell’aristocrazia ebraica, bianca e di destra, in un paese da sempre guidato dall’élite ashkenazista di sinistra. Il nonno di Bibi, il rabbino Nathan Mileikowsky, a Varsavia dirigeva una famosa scuola ebraica, il ginnasio Krinsky. Viaggiò per tutte le capitali d’Europa perorando, fra i primi, la nascita di uno stato ebraico in Palestina. Nel 1920 arrivò a Tel Aviv, dove ebraicizzò il suo cognome in Netanyahu, il “dono di Dio”. Mileikowsky aveva nove figli, il più giovane dei quali diverrà il padre di Netanyahu, Benzion. Anche lui precorse i tempi, andando a sostenere negli Stati Uniti la nascita di Israele durante la Shoah e portando a spalla la bara del guru della destra ebraica, il reietto Vladimir Jabotinsky (Ben-Gurion si oppose finché fu vivo al trasporto delle sue ceneri in Israele).

 

Bibi è stato segnato dall’influenza di questo padre austero e geniale. Come i Kennedy, i Netanyahu sono isolati, compiaciuti, un po’ paranoici. Come i Kennedy, i Netanyahu nutrivano grandi sogni per il loro figlio primogenito, e quando Yoni, come il giovane Joe Kennedy Jr., cadde in combattimento, tutte le speranze furono riposte sul fratello più giovane. E come i Kennedy, la forza motrice della famiglia era un padre convinto di non essere mai stato sufficientemente riconosciuto e apprezzato (gli negarono la cattedra all’Università di Gerusalemme). Considerato uno dei massimi storici dell’Inquisizione, Benzion nel 1962 scioccò amici e parenti esiliando se stesso e la propria famiglia negli Stati Uniti, dove accettò una cattedra al Dropsie College. E anche quando Bibi rimase ferito in una operazione dell’esercito israeliano, i genitori non rientrarono dall’America per far visita al figlio in ospedale. Benzion stava quasi per perdersi anche il matrimonio di Yoni, troppo preso a correggere le bozze del suo capolavoro sull’Inquisizione.

 

Il padre, scomparso nel 2012, era una sorta di leggenda per i suoi studi, per la sua visione laica e oltranzista della storia ebraica (“gli ebrei e gli arabi sono come due capre che si fronteggiano su un ponte stretto. Una deve saltare nel fiume, ma rischia di morire. La capra più forte farà saltare quella più debole e credo che la potenza ebraica prevarrà”), per la sua forza di carattere, quasi una indifferenza stoica, con la quale liquidava i nemici (“la stampa bolscevica” diceva). Bibi è cresciuto con questa rabbia, dentro a questa epopea di esclusione e di elezione.

 

Netanyahu, che dal padre ha ereditato soprattutto una visione ideologica e ciclica dell’Olocausto (in questa luce legge l’atomica di Teheran), pianse quando, all’età di quattordici anni, venne improvvisamente costretto a lasciare Israele per andare a vivere in un posto chiamato Pennsylvania. Ma Bibi divenne uno studente brillante alla Cheltenham High School di Wyncote, un sobborgo di Philadelphia, dove gli amici lo chiamavano “Ben”. Quella stessa solitudine lo avrebbe spinto a entrare nella Sayeret Matkal, la leggendaria unità d’élite d’Israele dove Bibi servirà sotto il comando di Ehud Barak, suo futuro rivale in politica nel 1999 e poi stretto alleato di governo fino al 2013. Bibi è stato un valoroso soldato, sull’aereo Sabena dirottato nel 1972, all’aeroporto internazionale di Beirut dove fece saltare in aria tredici aerei e in una famosa incursione nel Canale di Suez, dove soltanto gli sforzi di due commilitoni salvarono Bibi dall’annegamento sotto il peso dell’attrezzatura. Nel raid della Sabena, Bibi e altri undici si travestirono da tecnici con le tute bianche dell’aeroporto. Sgonfiarono le ruote dell’aereo, finsero di rispondere alle richieste dei terroristi, salirono sulle ali, assaltarono le porte e in novanta secondi di fuoco uccisero i dirottatori. Bibi afferrò una terrorista per i capelli togliendole di mano una granata.

 

Assieme al padre, l’altra figura che ha determinato la vita e la carriera di Netanyahu è stato il fratello Yoni, icona nazionale, eroe di guerra e unica vittima del leggendario raid di Entebbe. Yoni e Bibi non erano uguali: il fratello maggiore era più introverso, più complesso, più filosofico, più cupo, più romantico, ugualmente dedito al padre ma più indipendente di lui. Le lettere di Yoni a Bibi sono piene di amore e di incoraggiamento. “Tu sei l’unico vero amico che abbia mai avuto”, scrisse il fratello a Bibi nel 1967. E tre anni dopo: “Ti amo più di chiunque altro al mondo”. Due settimane prima della morte di Yoni, Bibi aveva iniziato un lavoro presso il Boston Consulting Group, dove lavorò assieme a Ira Magaziner, futuro guru della sanità del presidente Clinton.
Se Yoni non fosse stato ucciso nell’aeroporto in Uganda, Bibi non sarebbe mai sceso in politica. Si sarebbe dedicato al business o all’accademia. La morte di Yoni è decisiva per comprendere la solitudine di Netanyahu, che perse una delle poche persone che potevano davvero capirlo, amarlo. Sulla scia di quella tragedia familiare, Netanyahu chiese un periodo di aspettativa per creare quello che diverrà l’Istituto Jonathan, progettato per combattere il terrorismo internazionale. Netanyahu torna in Israele, trova lavoro alle Rim Industries, una società di mobili. Nel maggio del 1981, dopo già un matrimonio fallito con Micky, sposa Fleur (ebrea solo da parte di padre, si sarebbe dovuta convertire). L’anno successivo decolla la sua carriera politica, quando l’ambasciatore israeliano a Washington, Moshe Arens, un vecchio amico di Benzion, gli chiese di essere il suo vice.

 

Bibi ottiene il posto di Ares e nel corso dei quattro anni successivi avrebbe contribuito a esporre il passato nazista dell’ex generale dell’Onu Kurt Waldheim, ad abrogare la famigerata risoluzione “sionismo è razzismo” e a perorare la causa dell’emigrazione degli ebrei sovietici. Fleur Netanyahu accompagnò il marito in Israele, ma le tensioni nel loro matrimonio crebbero in proporzione alla fama di Bibi, e nel 1988 ci fu il divorzio. La causa non sarebbe stata l’infedeltà, come si è ampiamente sospettato, ma la trascuratezza, fisica e intellettuale. Fleur sarebbe andata a lavorare assieme a Ronald Lauder, uno dei sostenitori di Netanyahu a New York.

 

Armato di denaro in gran parte proveniente dall’estero e dall’aura di successo, Netanyahu assunse il controllo del Likud da outsider della politica, scavalcando i “principi del partito” Dan Meridor, Ehud Olmert e Zeeb Begin. Incontrò la sua attuale moglie, Sara, nata in un piccolo paese vicino a Haifa da una famiglia religiosa, anche nota come “Airess” per via del mestiere che faceva, la hostess. Sara rimase incinta, e alcuni mesi dopo si sposarono. Netanyahu avrebbe poi avuto una relazione con una assistente, Ruth Bar. Sara lo scopre e in poche ore Netanyahu va in prima serata tv annunciando il tradimento e chiedendo scusa alla moglie.

 

[**Video_box_2**]Gli israeliani non lo interpretarono come un segno di fermezza, ma di debolezza. A nessuno era mai interessato che Ben-Gurion, Moshe Dayan e Golda Meir avessero flirt extraconiugali. E alla maggior parte degli ebrei religiosi sono sempre interessati più i compromessi territoriali che quelli coniugali. In Bibi c’era dunque qualcosa di americano, di infantile, di non abbastanza maturo o padrone di sé. Ma il “Bibigate” non fa deragliare il colosso Netanyahu. E da allora, Sara è stata sempre al fianco del marito, causandogli non pochi guai, visto che fra tate e parrucchieri e il costo dei gelati ogni giorno si raccontano storie da basso impero a casa Netanyahu, dalle scarpe lanciate contro i domestici ai ministri che si alzano per far sedere la consorte. Non potendolo attaccare sul piano politico, se non per il suo innato immobilismo, Bibi è demonizzato attraverso la moglie, dipinta come una sorta di Lady Macbeth.

 

Sospettoso e solitario, completamente privo di ironia (Larry King una volta disse: “In una scala da uno a dieci, come ospite Bibi è otto. Se avesse un po’ di umorismo arriverebbe a dieci”), Netanyahu è da vent’anni psicoanalizzato da ogni giornalista e intellettuale israeliano. Le sue intuizioni e analisi sul medio oriente, dalla falsa volontà di pace dei palestinesi alla minaccia della bomba atomica iraniana, si sono rivelate tutte giuste, profetiche persino. Chiedete agli israeliani cosa ne pensano di Bibi e vi daranno due tipi di risposte: chi lo reputa un mostro che ha impedito a Israele di separarsi dai territori biblici della Giudea e della Samaria e chi lo considera il guardiano indispensabile di Israele in un medio oriente che cade a pezzi. Come spiegare dunque la popolarità e il successo di Bibi? Lo ha scritto Tom Segev, un editorialista di Haaretz. Agli israeliani non interessa mai l’onestà: “Vogliono sapere invece quanto vale lo shekel (la loro moneta, ndr), e che non ci siano bombe sotto la loro auto”.

 

In questo Bibi è stato un gigante. Ha liberalizzato e arricchito l’economia israeliana e non a caso gli è stato affibbiato l’appellativo di “Mr. Security” (pensiamo ai kamikaze che ogni giorno esplodevano in Israele sotto i governi di Rabin, Peres o Barak). Oggi Bibi è molto solo. La Casa Bianca di Obama non può vederlo, l’opinione pubblica internazionale lo considera un gangster, il suo stesso establishment di sicurezza lo contraddice sempre, il suo partito è in agitazione.

 

Bellicoso a parole, Bibi si è sempre dimostrato un leader difensivo, anche in guerra. Mai un azzardo. Per lui, il costo di un eventuale errore per Israele è sempre superiore agli eventuali benefici. Memore del fallito tentativo di assassinio del capo di Hamas, Khaled Meshaal, nelle strade di Amman. L’operazione, ordinata da Netanyahu, fu un fiasco. Da allora, Bibi detesta assumersi dei rischi, compreso il sempre minacciato strike preventivo alle installazioni atomiche iraniane. La sua visione evolve, in continuazione, si adatta. Il grande lascito di Netanyahu è quello di essere riuscito a impiantare nella testa degli israeliani l’idea che il conflitto di cui sono vittime e protagonisti da cento anni non se ne andrà mai via, che devono imparare a gestirlo e non a risolverlo, che devono essere forti, che alla fine prevarranno con il “muro di ferro”.

 

Gli israeliani finora si sono sempre fidati di questa faccia di bronzo dalle tante debolezze ma che, a differenza di altri leader israeliani, più spregiudicati e più naïf, non ha mai messo in pericolo il popolo ebraico. Vedremo se si fideranno anche questa volta. Bibi si ripresenta loro con lo stesso programma di quando impugnava l’M16 e indossava gli scarponi delle teste di cuoio: ogni concessione è una minaccia.
Niente sogni. E’ il medio oriente.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.