Gli sdraiati contro Al Baghdadi

Daniele Raineri

Giovedì scorso un ufficiale del Centcom americano ha scatenato un putiferio perché ha fatto un briefing ai giornalisti e ha spiegato che l’assalto per riprendere la città di Mosul dal controllo dello Stato islamico comincerà “tra aprile e maggio” e che saranno impegnati circa “venticinquemila iracheni".

Giovedì scorso un ufficiale del Centcom americano ha scatenato un putiferio perché ha fatto un briefing ai giornalisti e ha spiegato che l’assalto per riprendere la città di Mosul dal controllo dello Stato islamico comincerà “tra aprile e maggio” e che saranno impegnati circa “venticinquemila iracheni, tra soldati dell’esercito di Baghdad e combattenti curdi”. Subito sono cominciate le accuse di ingenuità e di favoreggiamento dello Stato islamico. I senatori John McCain e Lindsay Graham hanno scritto una lettera di protesta al presidente Barack Obama per dire che “mai prima d’ora nella storia della nazione avevamo annunciato in anticipo le nostre mosse ai nostri nemici, questo preavviso potrebbe costare la vita a militari americani e ai loro alleati in Iraq”. Il ministro della Difesa irachena, Khalid Obaidi, non ha nascosto l’irritazione – come si dice in questi casi con un’espressione caritatevole – provocata dal briefing e ha detto che “un ufficiale non dovrebbe mai rivelare la data di un attacco. La scelta del tempo compete ai comandanti iracheni: non so da dove questo ufficiale americano abbia preso le sue informazioni”. Il numero dei soldati pronti è ancora tragicamente inadeguato: tuttora gli americani dicono di averne addestrati 3.400, non si sa come si arriverà a ventimila nei prossimi due mesi.

 

Kate Brannen ieri ha scritto un pezzo su Foreign Policy per dire che dietro al briefing improvvido non c’era nessuna raffinata strategia mediatica, è stato proprio un errore – ma venerdì, il giorno dopo, il New York Times ha pubblicato un pezzo lungo per raccontare quell’incontro con i giornalisti al Pentagono e per spiegare che c’è una ragione psicologica nell’annuncio: si vuole spingere i civili di Mosul verso l’evacuazione e si vuole innescare una reazione popolare contro gli uomini dello Stato islamico che controllano la città dal giugno scorso. Da dentro al territorio governato da Abu Bakr al Baghdadi in Siria e Iraq arrivano notizie sporadiche di sedizione e resistenza contro i controllori islamisti – un agguato qui, un’uccisione là, un video trafugato, una delazione, persino la decapitazione di un leader della polizia religiosa. Nulla però che per adesso faccia pensare a una jacquerie solida e pericolosa.

 

L’annuncio di un’offensiva imminente su Mosul deve servire come le prime quattro note della Quinta di Beethoven trasmesse da Radio Londra verso Parigi occupata prima dell’invasione. Stanno arrivando i liberatori, c’è da incoraggiare i partigiani mosulawi a prendere le armi quando verrà il momento. Suona epico come paragone, vero? Sarebbe pure un minimo credibile se a Parigi nel 1944 ci fossero stati sunniti, sciiti, baathisti, curdi, cristiani, mafie arabe e gruppi armati assortiti, tutti sovrapposti nel medesimo territorio e separati da polarità pericolosissime che non aspettano che di scoccare con effetti imprevedibili (l’inviato in Iraq Eli Lake su Bloomberg News commenta così l’annuncio dell’assalto a Mosul e la possibilità di una vittoria: “Obama sta accelerando verso il disastro in Iraq”). Un comandante curdo che preferisce non essere nominato e che ha combattuto nella battaglia di Kobane dice al Foglio: “Combatteremo anche per Mosul: perché Mosul è nostra”. Sarà da vedere se i soldati regolari mandati dal governo di Baghdad saranno d’accordo con questa dichiarazione d’intenti da parte dei curdi.  Sarà una battaglia urbana che per numero di abitanti ed estensione territoriale potrebbe essere dieci volte più difficile di Fallujah – presa da quattordicimila marine americani nel novembre-dicembre 2004 (e questo non chiuse la guerra, anzi). E se anche questa battaglia fosse vinta, già si parla dei problemi che arriveranno dopo. Prima però, c’è appunto ancora da combatterla e da vincerla, contro lo Stato islamico.

 

Michael Knights è un analista americano che lavora per il Washington Institute for Near East Policy e dice che lo Stato islamico è forte soprattutto nella parte ovest di Mosul (la città è tagliata in due dal Tigri), dove ci sono gli edifici governativi più importanti e dove la popolazione è in maggioranza araba. I curdi sono di più nella parte est: “La mia impressione è che quelli dello Stato islamico continueranno a fare quello che possono sulla sponda est fino a quando i curdi non cominceranno a fare sul serio e verranno avanti. Allora si ritireranno nella parte occidentale e faranno saltare in aria i ponti. Combatteranno come diavoli per West Mosul, trasformeranno tutta quella zona in un campo minato pieno di autobomba inesplose, mine nascoste nelle strade e masse di finti ordigni” piazzati per rallentare il nemico.

 

Il Foglio chiede a Knights quanto crede in questa opzione: che una parte della gente di Mosul si solleverà contro lo Stato islamico. “Penso che se ci sarà una forza d’invasione credibile alle porte della città, allora qualche quartiere cercherà di autosigillarsi, per tenere i combattimenti fuori. C’è anche la possibilità di vedere una primavera di Mosul: quando lo Stato islamico si sentirà sotto minaccia immediata farà una delle sue campagne di repressione e potrebbe avere il risultato opposto a quello che spera – non rassegnazione da parte degli abitanti, ma resistenza”. Knights pubblicherà presto un pezzo su Foreign Policy a proposito di questo argomento.

 

Una parte degli abitanti combatterà dall’interno contro lo Stato islamico? Il giubilo che ha accolto l’arrivo dell’esercito di Abu Bakr al Baghdadi a giugno scorso era una finzione cerimoniale e scaltra dovuta al più forte, e comunque un sentimento molto parziale? Per capire di più si può leggere la pagina online di Mosul Eye, che dice di essere un dissidente anonimo che scrive da dentro la città occupata. Mosul Eye racconta che i guai di Mosul cominciarono quando Saddam Hussein applicò alla città una una strategia di “ruralizzazione” e di “militarizzazione” dei clan locali, teste quadre sunnite più leali al governo dei cittadini fighetti. In pratica, Saddam dette il potere a chi stava in campagna e fuori dal centro e lo tolse ai mosulawi più urbani, civici e senza legami con le tribù. Dopo l’invasione del 2003 gli americani tentarono di invertire questa tendenza e di ristabilire un minimo di equilibrio sociale e nominarono come leader Ghanim al Basso, fratello di Salim al Basso – un pilota giustiziato da Saddam per tradimento – ma senza successo.

 

Il blocco delle campagne conservò il potere su Mosul e anche sulle forze armate, sull’amministrazione e sulla politica, – e questo stato di cose è durato per tutti gli anni della guerra e dopo fino a quando Mosul non è caduta in mano allo Stato islamico nel 2014. La legge delle tribù era già da tempo la norma anche dentro la città e ogni obiezione era punita con violenza estrema e anche con la morte. Da questo stato di cose è emersa una generazione di “polli bianchi”, un’espressione locale che indica i giovani flosci che scelgono di non confrontarsi e di non combattere le storture che hanno davanti. Figurarsi lo Stato islamico. Gli sdraiati contro Abu Bakr al Baghdadi.

 

Mosul Eye scrive che il gruppo islamista controllava la città molto tempo prima di conquistarla anche dal punto di vista militare. Imponeva una tassa quasi ufficiale che si è estesa gradualmente a tutti e chi non pagava era ammazzato senza preavviso. In quei casi il denaro era poi chiesto ad altri membri della stessa famiglia della vittima e il ciclo delle minacce ricominciava. Quando un uomo d’affari rifiutò di pagare un pizzo da centomila dollari in appena quarant’otto ore, qualcuno piazzò una bomba sotto l’auto del figlio il giorno del matrimonio, uccidendo il figlio e la sposa. Gli fu detto che se non avesse pagato sarebbe toccato al secondogenito, lui si arrese. A metà del 2013 gli estremisti sunniti annunciarono una nuova imposizione fiscale, secondo la quale ogni commerciante doveva versare al gruppo il dieci per cento del suo capitale e il dieci per cento dell’incasso mensile. Quando lo Stato islamico ebbe assicurato così il suo profitto fisso, allora anche l’altro Stato, la polizia e l’esercito del governo, iniziarono a pretendere denaro: se i negozianti pagavano i jihadisti per ottenere in cambio protezione, perché non pagavano pure loro? Invece che uccidere, le forze di sicurezza avevano un altro metodo di pressione: false accuse.

 

[**Video_box_2**]Alla fine del 2013 lo Stato islamico fece irruzione nell’ufficio delle tasse di Ninive (è il nome del governatorato di Mosul) e chiese una legge che avrebbe dirottato le tasse dei contribuenti direttamente a loro, il governatore Atheel al Nujaifi intervenne e riuscì a far sgombrare l’ufficio con un riscatto in denaro. Quando si racconta che nel giugno 2014 Mosul è caduta in cinque giorni perché i soldati – in maggioranza sciiti – non avevano interesse a morire per difenderla, si tralascia di dire che fu un risultato di questo andazzo: sentivano che il territorio non era loro, non valeva la pena difenderlo, lo hanno lasciato andare. Chissà se un anno di governo diretto da parte dello Stato islamico ha cambiato la spirito cittadino. Mosul Eye sostiene di sì, a partire – dice – dal video in cui il pilota giordano è stato arso vivo in una gabbia, che avrebbe seminato il dubbio anche tra i conservatori. Si tratta di un’impressione non verificabile ma lui racconta un aneddoto: durante la recente ondata di bombardamenti, la più pesante, soprannominata “Bombardamenti Kasasbeh” dal nome del pilota ucciso in video, gli aerei hanno colpito una base dello Stato islamico incastonata nella zona industriale della città. Gli uomini hanno cominciato a sciamare fuori dall’obiettivo e a chiedere passaggi alle auto dei mosulawi per scappare più in fretta, ma loro tiravano dritti.

 

Il Pentagono ha detto ai giornalisti che l’offensiva comincerà prima dell’estate. Che tempo atmosferico fa a Mosul a giugno? L’almanacco dell’anno scorso dice che la temperatura media di giorno è di quarantatré gradi, di notte è di trenta gradi, zero giorni di pioggia su trenta. Quest’anno il mese sacro dell’islam, il Ramadan, cade tra il 18 giugno e il 17 luglio e qualsiasi operazione   sarà rallentata dal digiuno quotidiano (acqua inclusa) che dura dall’alba al tramonto e questa combinazione di estate e privazione vale per tutti e tre i grandi contendenti: i soldati iracheni, le milizie curde e gli uomini dello Stato islamico. Il calore ha sempre rallentato la guerra in Iraq, anche quando non coincideva con il Ramadan. Se si va a spulciare le statistiche, si vede che il numero dei soldati occidentali morti in Iraq a giugno diminuisce rispetto ai morti nei mesi di maggio: nel 2004 si passa da 83 a 50, nel 2005 da 88 a 83, nel 2006 da 79 a 63, nel 2008 da 131 a 108…

 

L’ufficiale anonimo del CentCom che ha parlato durante il briefing ha dato anche un altro dato interessante  – perché sembra fatto uscire per disorientare. A Mosul oggi lo Stato islamico ha  “mille-duemila” combattenti. A Falluja nel 2004 erano tra i tremila e i quattromila e la città è grande come un quartiere di Mosul, e oggi la capitale del Califfato conterrebbe soltanto “mille-duemila” combattenti? Fonti locali danno informazioni diverse, il governatore in esilio dice che sono almeno diecimila – senza contare che possono arrivarne altri ad attacco cominciato – e ci sono testimonianze di preparativi di guerra. Lo Stato islamico ha fatto una gara di appalto per un muro di cinta lungo il perimetro della città, ci sono bulldozer e macchine edili che costruiscono tunnel e bunker antiaerei (nulla di nuovo, vedi in altro contesto la Striscia di Gaza).

 

Ci sono le premesse per una pagina di dolore del medio oriente. L’obiettivo è far dire agli americani e al governo centrale di Baghdad quello che il generale messicano Santana sospirò quando arrivò dentro le mura di Fort Alamo: “Un’altra vittoria così e avremo perso la guerra”. Dice un giornalista del quotidiano kuwaitiano al Rai: “Cercate di ricordare Mosul com’è ora, perché alla fine non ci sarà più”.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)