Matteo Renzi (foto LaPresse)

"Jobs act, la falsa riforma di Renzi"

Renato Brunetta

Una riforma che non produrrà lavoro e che farà arrabbiare l’Europa. Quattro ragioni semplici perché il Jobs Act non piace a Forza Italia. Ci scrive Brunetta

E’ atteso per il prossimo venerdì 27 febbraio il giudizio della Commissione europea sul Piano di stabilità e crescita del governo italiano.

 

Nel merito, non solo crea grandi dubbi di carattere macroeconomico l’impatto complessivo dei provvedimenti dell’esecutivo sulla crescita economica del paese, così come calcolato dal ministero dell’Economia e delle finanze, ma soprattutto appare non risolutiva per i bisogni del paese e, pertanto, con effetto nullo o negativo sull’economia, la nuova legislazione del mercato del lavoro, tutta all’insegna dell’incertezza e dell’indeterminatezza.

 

Diventa, allora, fondamentale analizzare le principali criticità del cosiddetto “Jobs act”, con particolare riferimento ai seguenti aspetti: 1) ammortizzatori sociali; 2) politiche attive del lavoro; 3) contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e “opting out”; 4) riordino delle diverse tipologie contrattuali.

 

Dall’analisi che segue deriva, quindi, un Piano di stabilità e crescita che rallenta lo sviluppo in Italia, piuttosto che stimolarlo. Di conseguenza, diventerà sempre più difficile per il paese rispettare i parametri del Patto di stabilità e crescita non solo nel 2015, ma anche negli anni a venire.

 

Auspichiamo che il dialogo costruttivo della Commissione europea con il governo italiano consenta di evitare ulteriori danni al nostro paese, alla nostra economia e alle nostre finanze pubbliche.

 

Ammortizzatori sociali

 

Ben al di là degli indubbi aspetti interessanti ed innovativi del Jobs act, il processo di attuazione della legge delega (legge n. 183 del 2014) mette in evidenza anche taluni squilibri e sottolinea alcuni limiti interpretativi.

 

Quanto agli squilibri, quelli più seri riguardano la permanente inadeguatezza delle “nuove” tutele rispetto al superamento delle “vecchie”. Anche in conseguenza delle ristrette disponibilità finanziarie, l’impianto riferito ai nuovi ammortizzatori sociali resta caratterizzato da problemi di copertura che ne impongono un generalizzato carattere di sperimentalità e di incertezza della durata e delle misura delle prestazioni.

 

Con riferimento agli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria, la delega elencava, inoltre, i seguenti principi e criteri direttivi: 1) rimodulazione e omogeneizzazione dell’Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI), rapportando la durata dei trattamenti alla pregressa storia contributiva del lavoratore; 2) incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti; 3) universalizzazione del campo di applicazione dell’ASpI, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, e prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite; 4) eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’ASpI, di una prestazione limitata ai lavoratori in disoccupazione involontaria, in condizioni di disagio, con obbligo di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti.

 

Si trattava, nelle intenzioni del Governo, di un’operazione ambiziosa, promessa come ‘’estensione universale’’ delle tutele. In realtà, la limitatezza delle risorse finanziarie ne hanno imposto un notevole ridimensionamento.

 

Così, il provvedimento commisura la durata della NASpI (ovvero la Nuova Aspi) alla pregressa storia contributiva del lavoratore per un periodo massimo di quattro anni; non prevede, inoltre, alcun incremento per i lavoratori con carriere contributive ‘’più rilevanti’’.

 

Quanto all’annunciata “universalità’’ delle prestazioni, non vi è traccia dell’estensione della NASpI ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (come richiesto dalla legge delega); viene introdotta, invece, un’indennità diversa (per requisiti, durata e copertura finanziaria) denominata DIS-COLL.

 

Lo schema di decreto, poi, prevede un periodo di sperimentazione più breve (di otto mesi per la NASpI e di un anno per la DIS-COLL) rispetto a quello richiesto dalla legge delega.

 

A decorrere dal 1° maggio prossimo e in via sperimentale per l’anno 2015, viene istituito  l’assegno di disoccupazione (ASDI) destinato ai soggetti che abbiano fruito della NASpI per l’intera sua durata entro il 31 dicembre 2015, i quali, privi di occupazione, si trovino in una condizione economica di bisogno.

 

Nello schema predisposto è  stato incluso, all’ultimo momento, all’articolo 17, anche il contratto di ricollocazione (stralciato dal testo riguardante il contratto a tutele crescenti). Dovrebbe rappresentare ‘’il nuovo che avanza’’ nel campo delle politiche attive del lavoro; ma la sua piena operatività è a rischio, perché si rinvia la disciplina di alcuni importanti aspetti a un successivo decreto legislativo.

 

La disposizione stabilisce che abbiano diritto al contratto di ricollocazione soltanto i soggetti licenziati illegittimamente per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo: resterebbero quindi fuori dal campo di applicazione del contratto di ricollocazione i soggetti licenziati illegittimamente per giustificato motivo soggettivo e quelli licenziati legittimamente per giustificato motivo oggettivo.

 

A conti fatti, anche chi è favorevole al contratto di nuovo conio e alle annesse tutele in tema di recesso, non può esimersi dal sottolineare l’esistenza di uno squilibrio tra le tutele che vengono meno nel caso di licenziamento e le nuove che si aggiungono sugli aspetti della protezione del reddito e del principale strumento delle politiche attive (il contratto di ricollocazione, appunto).

 

Politiche attive del lavoro

 

A ciò si deve aggiungere che non solo non è ancora stato predisposto lo schema di decreto riguardante gli strumenti delle politiche attive, dove assume un ruolo rilevante l’Agenzia nazionale per l’occupazione, ma è anche molto controverso lo stesso disegno ispiratore contenuto nelle norme di delega.

 

L’Agenzia ‘’partecipata da Stato, regioni e province autonome e vigilata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali “dovrebbe  svolgere un ruolo strategico nel campo delle politiche attive del lavoro, destinate, ai sensi della revisione del Titolo V, a tornare di competenza dello Stato centrale (mentre alle Regioni resterebbe la formazione professionale).

 

Del resto, una SuperAgenzia dell’occupazione  non avrebbe alcun senso se non vi fosse nel legislatore il progetto di  sottrarre le politiche attive alle competenze riconosciute alle Regioni.

 

Se la SuperAgenzia nazionale, infatti,  dovesse diventare soltanto un organismo di coordinamento di venti strutture regionali, si finirebbe per aggiungere burocrazia a burocrazia e, nella peggiore delle ipotesi, a riaprire un contenzioso tra Stato e Regioni come quello che paralizzò l’azione della pubblica amministrazione in tanti settori ai tempi delle ‘’competenze concorrenti’’, durante i primi anni del decennio, perché le Regioni pretesero di vedersi riconoscere quei poteri che, alla prova dei fatti, dimostrarono di non saper esercitare.

 

Ma nel disegno del Jobs act emerge un altro problema di enorme portata, laddove si prevedono “meccanismi di raccordo e di coordinamento delle funzioni” tra l’Agenzia e l’Inps, a livello centrale  e territoriale, “al fine di tendere ad una maggiore integrazione delle politiche attive e delle politiche di sostegno al reddito”.

 

L’uso del verbo “tendere” esprime visibilmente un approccio programmatico e graduale. E’ facile ritenere che insorgeranno dei conflitti di competenza destinati a dare luogo, quanto meno, a confusione, dal momento che non è agevole capire quali potranno essere le “competenze gestionali” attribuite all’Agenzia, diverse da quelle che rimarranno come prerogativa dell’Inps.
Ma la buccia di banana su cui scivola tutto l’impianto (e le speranze) dell’Agenzia è laddove si legge del “mantenimento in capo alle regioni e alle province autonome delle competenze in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro”. Ciò fa supporre che, anche in questo caso, si avrà una ulteriore conferma del principio per cui, nell’amministrazione: “tutto si crea nulla si distrugge”.


Contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e “opting out”

 

Il tema che ha suscitato maggiore interesse nel dibattito, inoltre, è certamente l’istituzione del c.d. contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, recante una revisione significativa delle tutele contro il recesso illegittimo.
Il cambiamento più importante è il seguente: si passa (di mezzo c’è stata alche la legge n. 92 del 2012 nota come riforma Fornero) da un normale regime sanzionatorio  di reintegra giudiziale ad uno impostato sull’erogazione di un’indennità risarcitoria ragguagliata all’anzianità di servizio.

 

La tutela reale rimane nel caso di licenziamento nullo o discriminatorio ed è limitata alle sole ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa (c.d. licenziamento disciplinare) in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.

 

In tali casi il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 181/2000.

 

In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione.

 

Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all’articolo 2, comma 3, ossia di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, non assoggettata a contribuzione previdenziale (c.d. opting out).

 

E’ proprio la “brutalità” della norma ad aver sollevato molti dubbi da parte della dottrina, che potrebbero avere influenza sulla giurisprudenza.

 

La norma sembra presumere non solo un’inammissibile inversione dell’onere della prova a carico del lavoratore nel dimostrare l’insussistenza del fatto materiale, ma anche l’irrilevanza di qualsiasi elemento riconducibile a responsabilità o a colpa del lavoratore.

 

Il fatto materiale di un ritardo rispetto all’orario di lavoro costituisce di per sé “fatto materiale” anche se dovuto ad un guasto del treno? E’ inoltre ammissibile che il giudice non debba tener conto di quanto dispone la contrattazione collettiva, a proposito di sanzioni conservative, nel codice disciplinare?

 

Queste riflessioni inducono a rendersi di quanto finisca per essere problematica ed iniqua una norma che preveda la reintegra al di fuori delle fattispecie del licenziamento nullo, inefficace o discriminatorio. Molto meglio e più lineare prevedere una possibilità di opting out anche per il datore di lavoro.

 

Infine è appena il caso di ricordare che il più consistente limite del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti sta nel fatto che si applica soltanto ai nuovi assunti. Ciò determinerà non solo uno sdoppiamento delle procedure, ma un nuovo dualismo ed un irrigidimento del mercato del lavoro.

 

Riordino delle diverse tipologie contrattuali

 

Il governo ha messo, poi, le carte in tavola anche per quanto concerne  l’attuazione delle altre deleghe. Rispetto alle preoccupazioni della vigilia, dobbiamo riconoscere che, negli schemi preliminari, i danni sono stati in parte contenuti ed in parte compensati.

 

La riforma del contratto a termine, per ora, non ha subito modifiche e potrà continuare, comunque, a svolgere la funzione di “uscita di sicurezza” per le imprese, essendo questa forma contrattuale sottratta, per la durata consentita, all’esame del giudice relativamente alla trappola della causale.

 

[**Video_box_2**]Lo schema riguardante le tipologie contrattuali assume  il profilo di un Testo Unico, con norme sostanzialmente ripetitive di leggi già esistenti e della relativa giurisprudenza consolidata.

 

Per quanto riguarda le abrogazioni (la contropartita pagata alla mistica della lotta al precariato), sotto la scure giustiziera cadono soltanto le associazioni in partecipazione (nonostante un’ampia ed antica regolamentazione codicistica, rivisitata dalla legge n. 92 del 2012) e il lavoro ripartito.

 

Ma il demonio da esorcizzare sono le collaborazioni (anch’esse già messe sotto pressione dalle legge Fornero). In proposito riportiamo il testo del comunicato stampa del Governo: “A partire dall’entrata in vigore del decreto non potranno essere attivati nuovi contratti di collaborazione a progetto (quelli già in essere potranno proseguire fino alla loro scadenza).

 

Comunque, a partire dal 1° gennaio 2016 ai rapporti di collaborazione personali con contenuto ripetitivo ed etero-organizzati dal datore di lavoro saranno applicate le norme del lavoro subordinato.

 

Restano salve le collaborazioni regolamentate da accordi collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedono discipline specifiche relative al trattamento economico e normativo in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore e pochi altri tipi di collaborazioni”.

 

L’intervento non ha alcuna giustificazione, ma, tuttavia, non è estranea una certa ragionevolezza: è previsto, infatti, un periodo di transizione e sono indicati criteri e parametri in base ai quali saranno ancora ammesse queste forme contrattuali sia in termini generali che attraverso la contrattazione collettiva.

 

In pratica, l’uso dei contratti di collaborazione viene sospinto verso fasce qualificate di lavoro autonomo e praticamente precluso ai livelli più bassi. Il che è parecchio innovativo rispetto alla giurisprudenza consolidata che, nell’accertamento delle tipologie, aveva considerato prevalenti le modalità di esercizio delle mansioni, tenendo fermo il principio per cui ogni attività economicamente rilevante può essere svolta sia in forma autonoma che subordinata.

 

I co.co.pro., sebbene in un trend di ridimensionamento dopo la legge del 2012, sono pure sempre più di 500.000. Mettiamo pure che una parte di questi contratti possa proseguire nel precedente regime; un’altra parte, consistente, sarà trasformata, di fatto ope legis, in rapporti  a tempo indeterminato, seppure a tutele crescenti.

 

Sarà comunque un problema. C’è da augurarsi che le associazioni imprenditoriali e i sindacati sappiano dimostrare quella saggezza necessaria a trovare soluzioni eque e corrette, come, peraltro, hanno già fatto in altre occasioni, di fronte alle svolte illuministiche del legislatore.