Carmine Schiavone

Il boss dei fuochi fatui

Salvatore Merlo

Così il circo ecologico-giudiziario ha creduto a Carmine Schiavone, assassino pentito e profeta tivù. Da più di vent’anni Schiavone snocciolava i suoi rapporti con voce monotona, come in un’interminabile litania, e accumulando una tale quantità d’allusive inesattezze che carabinieri e magistrati antimafia hanno infine prestato alle sue tiritere un orecchio sempre più scettico.

Carmine Schiavone aveva l’aria simpatica di un vecchio zio, saggio e bonario, t’invitava alla confidenza rispettosa. E allora era con un po’ di pudore che i giornalisti, quando andavano a trovarlo a Casal di Principe, gli chiedevano: “Ma quante persone ha ucciso lei?”, quasi increduli che quel vecchietto, lui che pure nel clan dei casalesi era considerato l’uomo di mondo, quello brillante, l’istruito, l’unico con il diploma di scuola superiore, avesse davvero ammazzato qualcuno. E invece lui, che tante altre cose non le ricordava se non per allusioni e vaghezze, su quel dettaglio feroce rispondeva con la rapidità delle cose ovvie: “Credo cinquantotto uomini”, diceva, e il tono facile con il quale avrebbe anche potuto descrivere la sua colazione al mattino. Quando lo incontrai un anno fa, a febbraio, in quel silenzioso paesone di camorra in cui viveva, Schiavone era già una stella della tivù. Aveva mostrato alle Iene la mappa delle zone secondo lui inquinate dalle radiazioni, e l’inviata di Italia uno, Nadia Toffa, aveva sollevato gli occhiali scuri e guardato in camera, dritto negli occhi dei telespettatori, per ricordare che i pomodori prodotti nell’inferno atomico della Campania erano utilizzati per comporre il “minestrone di una nota marca di surgelati”. E in poche settimane l’industria dei pelati è quasi andata a gambe per aria, in Campania. A quel tempo Schiavone era già apparso su Sky, su Rete 4 e poi da Michele Santoro, in una mitologica puntata di Servizio Pubblico, con Sandro Ruotolo nel ruolo di Dante e Schiavone in quello di Virgilio: “Ma lei ha visto interrare dei fusti ricolmi di scorie radioattive?”; “Me l’hanno detto”; “E dove sono?”; “Qui, là, tutt’intorno a noi. Ci hanno costruito sopra. Moriremo di cancro”. E poiché tutto era creduto, tutto era vero, malgrado magistrati e poliziotti dicessero il contrario.

 

Da più di vent’anni Schiavone snocciolava i suoi rapporti con voce monotona, come in un’interminabile litania, e accumulando una tale quantità d’allusive inesattezze che carabinieri e magistrati antimafia, come Federico Cafiero De Raho e Raffaele Cantone, hanno infine prestato alle sue tiritere un orecchio sempre più scettico: “Dice stupidaggini”. Già alla fine degli anni Novanta i carabinieri avevano cominciato a scavare nei pressi di Casal di Principe, alla ricerca dei fusti di scorie radioattive “provenienti dalle centrali nucleari della Germania”. Seguivano le vaghe indicazioni che Schiavone aveva dato nel 1997 ai magistrati e ai membri della commissione d’inchiesta sul traffico illecito dei rifiuti nel corso di un’audizione intorno alla quale il meccanismo dell’informazione spettacolarizzata avrebbe poi costruito un romanzo nel romanzo: “Le rivelazioni di Schiavone secretate per sedici anni”. Ed erano segrete perché erano oggetto d’indagini in corso, nessun mistero, ovviamente, perché in Campania s’è indagato, e molto, per anni. Il 30 gennaio 2014, in prima pagina sul New York Times, campeggiava ancora la foto di un carabiniere a presidio d’un campo coltivato a friarielli, una mano poggiata sulla fronte, gli occhi socchiusi. Niente. Niente scorie radioattive. Niente di niente. E infatti era soltanto sotto le luci della televisione che gli accidentati sentieri della memoria del pentito Schiavone si rischiaravano d’improvviso, soltanto negli studi di La7 si facevano potentissimi, soltanto in quelli di Mediaset più veri del vero, soltanto in quelli di Sky più credibili dei carabinieri, più dei funzionari dell’Asl, più dei medici dell’Istituto superiore di sanità, più di tutto quel mondo fatto di tecnica e di ufficialità, di lauree e analisi di laboratorio che d’improvviso si trovava immerso in un universo rovesciato, dove le parole di tutti i giorni erano come monete fuori corso: l’ex pentito di camorra aveva più forza e più voce di loro, delle istituzioni. Ed è in quei giorni che don Maurizio Patriciello, parroco di Parco Verde a Caivano, periferia della periferia di Napoli, un luogo che di cose liete e innocenti ne offre poche, si rivolge a Schiavone con una preghiera che è un pauroso rovesciamento di senso in una comunità devastata dal degrado, dall’emarginazione e avvolta da un sentimento di collera, di millenarismo e di paura, pronta a credere a chiunque, purché non sia lo stato: “Carmine, fratello mio, stiamo soffrendo. E’ giunta l’ora del coraggio e della verità. Aiutaci tu a svergognare questi loschi figuri nascosti dietro la cravatta e il computer”. Schiavone è morto pochi giorni fa. A forza di recitare il suo ruolo in pubblico, di studiare ogni movimento, ogni sguardo, ripetendo le parole di cui voleva servirsi, le parole chiave, quelle che ispirano indignazione, quelle che spaventano e quelle che liberano, si sentiva costantemente in scena, ormai anche fuori dagli studi televisivi.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.