Matteo Renzi è segretario del Pd dal dicembre 2013

Contro il partito dei funzionari

Antonio Funiciello

Primarie, forma, struttura, organizzazione, futuro e la vecchia sindrome Alberto Sordi. Il Pd nell’era Renzi. Che cosa cambiare del Partito democratico per poter davvero cambiare l’Italia.

Nel suo “Che fare?”, scritto nell’inverno racchiuso tra il 1901 e il 1902, Lenin scrive: “La struttura di ogni organismo è necessariamente e inevitabilmente determinata dal contenuto della sua attività”. Letta così, la citazione appare talmente ovvia da disonorare non solo chi l’ha fatta propria, ma soprattutto chi l’ha vergata più di cento anni fa, dentro un libello la cui fortuna editoriale non è ancora indebolita dal trascorrere dei tempi. Se, viceversa, la si storicizza e si richiama alla memoria la polemica che Lenin intrattenne, in quelle pagine, contro il primitivismo degli economisti e lo spontaneismo dei primi movimenti anti zaristi, se ne comprende già tutta la pregnanza. Cito ancora Lenin: “Dal fatto che la massa sia spontaneamente trascinata nel movimento non scaturisce che l’organizzazione della lotta sia meno necessaria”. Come dunque organizzare il partito dei “rivoluzionari di professione”? Ovvio: in funzione dello scopo finale e degli obiettivi intermedi della rivoluzione socialista. C’è un nesso, insomma, “necessario” e “inevitabile” tra struttura del partito dei rivoluzionari e funzione dello stesso, che vede la struttura decisamente condizionata dalla funzione politica che s’intende esercitare. Invero, molti decenni prima di Lenin, ma questo io l’ho scoperto – ahimè – qualche anno dopo la maturità liceale, analoghe considerazioni erano state sviluppate dall’ideatore e dall’organizzatore del Partito democratico americano, che rispondono rispettivamente ai nomi di Andrew Jackson e di Martin Van Buren, 7° e 8° presidente degli Stati Uniti d’America. Jackson, il formidabile leader che travolse la scena politica americana condizionando tutto quanto venne dopo, mutando lo stile stesso della presidenza; e Van Buren, il suo uomo più fidato. Nato per scissione dal Partito democratico-repubblicano di Jefferson, partito che aveva espresso i quattro precedenti presidenti, i democrats di Jackson costruirono la loro constituency politico-culturale intrecciando valori-interessi-bisogni di contadini e piccoli artigiani del South e del Midwest con quelli degli operai delle grandi città industriali e dei cattolici irlandesi del North Est. Valori-interessi-bisogni cui i precedenti Presidenti avevano anteposto – e il Congresso ancora anteponeva – quelli dei grandi gruppi industriali e delle banche e della borghesia intellettuale e impiegatizia del Noth Est.

 

A questi Jackson oppose la centralità delle categorie sociali che lui prediligeva e che non esitava a definire “people” (tutti chiamano “popolo” un po’ quello che vogliono…), chiedendo a Van Buren di organizzare un partito conseguente: dunque poco centralizzato, valorizzante i livelli di governo locali, tendente talora a garantire al leader nazionale lo scavalcamento dei rappresentanti della Camera e del Senato, per stabilire rapporti più diretti coi cittadini elettori. “The people in our system, like the king in the monarchy, never dies” sintetizzò Martin Van Buren. E il Partito Democratico vide la luce, con una organizzazione fissata sulla nuova concezione e relativa funzione della jacksonian democracy. Ed eccolo qua, il nesso struttura-funzione ancora una volta elevato a potenza e realizzato in atto. Insomma, ogni seria discussione su come organizzare un partito è una discussione politica nel senso più ampio e problematico del termine: politics e policies vanno a braccetto. Così come, d’altronde, ogni discussione su come predisporre istituzionalmente un efficiente sistema dei partiti non può essere affrontata senza avere chiaro che tipo di democrazia si ha in mente e si vuole realizzare.

 

Negli anni scorsi, nel periodo che va dal 2007 al 2013, il dibattito intorno alla forma partito è stato un po’ sgangherato, perché non partiva dall’indissolubile nesso tra struttura e funzione. Non che mancasse una definizione di funzione politica per il nuovo partito: l’idea di Pd di Walter Veltroni si fondava su un discorso, quello del Lingotto, che definivano abbastanza chiaramente la funzione a vocazione maggioritaria del nuovo partito; così come i tentativi deduttivi di Pier Luigi Bersani, condotti per elisione e approssimazione dell’idea originaria veltroniana, di formulare la propria idea di Pd nel solco della continuità Pci-Pds-Ds.
Ma entrambi gli approcci, pur così agli antipodi, difettavano di una scoraggiante sottovalutazione del nesso tra struttura e funzione, che è alla base di ogni idea di partito degna di questo nome. Nella breve fase veltroniana, la vision del Lingotto non venne mai sostanziata da una ipotesi di forma partito: ci si limitò a giustappore le primarie alla forma cadaverica del partito di massa che si era ereditata dal passato. Nella lunga fase bersaniana, ci si adagiò su questa difettosa giustapposizione, estremizzando talora un termine, talora l’altro. [Eccessi che davvero non giovarono: dall’esaltazione di un sedicente partito pesante, ma talmente pesante che non spiccò mai il volo per iniziativa di una qualche rivisitazione dello statuto. Alla apoteosi delle sedicenti primarie per la selezione dei parlamentari: una corsa alla preferenza in un bacino di voti predeterminato da un’altra competizione interna – le primarie per la premiership – per fissare l’ordine d’elezione della lista bloccata del porcellum. Chiamare primarie una cosa come questa, è come chiamare carbonara l’amatriciana, di là dal giudizio di merito che se ne può dare.]

 

Nel breve tempo della segreteria Veltroni e nel lungo tempo della segreteria Bersani, insomma, l’intuizione del nesso struttura-funzione che fu prima di Jackson e Van Buren, poi di Lenin e di tanti altri, venne disdetta nei fatti. A livello teorico, ci fu solo un tentativo serio di tematizzare la questione nei termini che le sono storicamente propri. Mi riferisco al documento dei giovani turchi, che però non divenne mai l’asse culturale della confusa esperienza del Pd bersaniano.

 

E quindi siamo ancora lì: fermi al nesso struttura-funzione, un nesso incredibilmente mai sviluppato; eppure con una significativa novità, un vantaggio a dirla tutta, e non di poco conto.

 

Siamo al governo. Il capo del nostro partito è il capo del governo dell’Italia. Niente di straordinario, s’intende. Angela Merkel è il capo del suo partito e il capo del governo. David Cameron è il capo del suo partito e il capo del governo. Mariano Rajoy è il capo del suo partito e il capo del governo. Nelle democrazie parlamentari funziona così. Certo noi dobbiamo la cosa ad una felicissima intuizione del PD veltroniano, ancora fino ieri contestata da mezzo partito. Ma il dato è teoricamente acquisito e ormai concretamente inverato nella leadership di Matteo Renzi.

 

Siamo al governo e il capo del nostro partito è il capo del governo. Questo vuol dire che il problema della funzione, uno dei termini del nesso fondamentale di cui sto trattando, è praticamente risolto. La nostra funzione politica, la funzione del partito del capo del governo, si manifesta quotidianamente nell’azione di governo. Questa non è una posizione di principio. Questo è un fatto “necessario” e “inevitabile”, per riprendere Lenin. E la rappresentanza parlamentare è chiaramente consustanziale a questa precisa funzione che è il governo.

 

So che c’è chi sostiene ancora la rappresentanza come fine a sé. Come se chi un tempo lottò lungamente per il suffragio universale, avesse come obiettivo massimo occupare uno scranno dell’assemblea legislativa, e non invece servirsi di quello scranno per governare e cambiare e conquistare diritti sociali, economici, civili. Ribadendo quindi la centralità funzionale del tema governo. 

 

Il Pd oggi è al governo grazie alla leadership di Matteo Renzi. E il governo procede spedito nella direzione della modernizzazione liberale del sistema paese, allo scopo di moltiplicare le opportunità e di estendere l’eguaglianza. In linea con la migliore tradizione riformista della socialdemocrazia, da Bad Godesberg alla Neue Mitte e al New Labour, non ci occupiamo soltanto di tosare e distribuire la lana, ma anche di farla crescere sulla pelle delle pecore, la benedetta lana.

 

Dal Jobs Act al rifiuto radicale della vetocrazia della concertazione sindacale, dalla rivoluzione meritocratica della scuola pubblica alle prime misure fiscali, dalla riforma delle banche popolari alla prima legge sulla concorrenza e sulle liberalizzazioni, fino alle riforme costituzionali e al doppio turno dell’Italicum, ogni azione del governo Renzi muove con coerenza nel disegno di un sistema-paese che sia più dinamico e metta il suo dinamismo al servizio degli ideali e degli obiettivi di libertà e giustizia propri, in ogni tempo, della sinistra di governo.

 

Questo, insieme a Matteo Renzi, stiamo facendo. Stiamo cercando di fare.

 

Il problema della funzione è risolto. Ora tocca finalmente mettere mano al problema della struttura: la grande questione dell’organizzazione del partito della sinistra di governo. Anzi, di questa sinistra che sta esercitando questa precisa funzione di governo.

 

C’è stato un tempo, non molto remoto, in cui in queste stanze ci siamo divisi tra sostenitori del partito leggero e pretoriani del partito pesante, tra teorici del partito liquido e ideologi del partito solido: partito con le tessere, partito senza tessere eccetera eccetera eccetera. Una guerra santa all’insegna del ridicolo.

 

Io ne faccio anzitutto una questione di lessico, di semantica minima. Cosa possa significare mai partito leggero o partito pesante, non l’ho davvero mai capito. Mi sembrano espressioni intrinsecamente incomprensibili, quelle di partito liquido e di partito solido. Come pretendere di voler comprare – che so – un divano trasparente, un tombino luminoso, un lampadario profumato: un lampadario è un lampadario, fa luce o non fa luce, questa è la sua funzione.

 

Un partito è un partito, è come un lampadario: assolve una precisa funzione. E in coerenza con questa precisa funzione, il partito si organizza come soggetto vivo e attore tra i principali della vita pubblica.

 

Il Pd è oggi il partito del governo di Matteo Renzi, che equivale a dire, come detto poc’anzi: il partito dell’azione di governo guidata da Matteo Renzi. Quello che deve fare è organizzarsi in relazione a questa precisa funzione di governo. E siccome noi tutti nel PD operiamo compatti affinché l’esperienza di questo esecutivo sia lunga e rigogliosa, e rappresenti quel duraturo ciclo di governo riformista al servizio del cambiamento, dobbiamo orientare la struttura del partito in questa direzione.

 

Oggi il governo di Matteo Renzi non ha come riferimento il tradizionale blocco sociale minoritario della vecchia sinistra di stampo pi-ci-ista e cattolico-democratica. L’azione dell’esecutivo, com’è evidente dalle policies messe in moto – prima sommariamente delineate – si propone di intersecare dinamiche sociali differenti, occupando il mainstream della società.
Come ha scritto il Presidente del Consiglio nella postfazione all’edizione ventennale di “Destra e sinistra” di Bobbio, “più che con blocchi sociologicamente definiti entro stati nazionali determinati, oggi la nuova partita si svolge con attori e campi da gioco inediti. Quei blocchi sono stati sostituiti da dinamiche sociali irrequiete”.

 

E più avanti: “La capacità della politica di saper distinguere le dinamiche sociali che interessano gli ultimi e gli esclusi, di saperle intrecciare per dare loro rappresentanza e, infine, di saperne governare il costante movimento per costruire per loro, e per tutti, un paese migliore, è il compito del Partito Democratico”. Da qui comincia il nostro discorso e il nostro lavoro sulla struttura, sull’organizzazione del Pd. Certo, rispettoso del pluralismo interno, della ricchezza di esperienza culturali che affollano la nostra big tent. Ma al contempo ossequioso verso l’orientamento funzionale di fondo espresso dall’azione di governo. Abbiamo già dato coi governi che, al mattino, nel palazzo dicevano una cosa e, la sera, in piazza negavano di averla detta.

 

La nostra big tent deve già rappresentare al suo interno la varietà di quelle diverse e alterne dinamiche sociali segnalate da Matteo Renzi nel suo breve saggio a “Destra e sinistra” di Bobbio. Più il partito vuole rappresentare per governare quelle dinamiche, più ha bisogno di riconoscere loro cittadinanza sotto la grande tenda democratica. Come riconoscere loro cittadinanza? Tocca muovere da qui per affrontare la serie questioni lasciate senza risposta dalla scissione della funzione dalla struttura dei primi sette anni di Pd.

 

In Italia la membership tradizionale fondata sul tesseramento non funziona più da un pezzo. È un tipo di membership in crisi in tutta Europa, per ragioni generali di ordine storico-culturale e motivi particolari di carattere nazionale, su cui qui non è possibile indugiare troppo. Ed è una crisi irreversibile: i partiti di massa del tempo che fu non torneranno, perché la società entro cui erano nati e si erano rafforzati, quella dei blocchi sociali grandi, definiti e compatti, è morta e sepolta.

 

Per dare riparo sotto la grande tenda democratica alle diverse dinamiche sociali del cambiamento, non si può che credere fermamente nella centralità del cittadino elettore, non del cittadino militante. Dunque nella centralità delle primarie.
Tuttavia anche il dibattito intorno alle primarie è stato inutilmente e goffamente ideologico. A dirla tutta, niente ha messo in evidenza l’oblio del nesso struttura-funzione come il dibattito intorno alle primarie.

 

Le posizioni metafisicamente ostili alle primarie sono poco interessanti perché prive di vero fondamento. La domanda: Che ce ne facciamo della vecchia membership se le scelte principali le affidiamo agli elettori? è una domanda oziosa. Noi abbiamo importato dagli Stati Uniti le primarie e negli Stati Uniti persistono forme di membership tradizionali, tipiche di quel paese, e le primarie aperte agli elettori. Poi le modalità di apertura sono le più varie a seconda di dove, tra i 50 stati federati e il Distretto di Columbia, ci si trovi.

 

Il partito della sinistra italiana è arrivato a scegliere di nascere attraverso le primarie sulla spinta del movimento ulivista e di una parte molto minoritaria dei post comunisti. Se la scelta è stata infine condivisa dalla maggioranza dei due partiti da cui il Pd è nato, è stato di certo fondamentale per gli esiti politici. Ciononostante l’ispirazione del ricorso a tale strumento fu senz’altro originariamente un’intuizione minoritaria.

 

Vero è che nel 2005 si erano celebrate primarie di coalizione – originalità tutta italiana – per la scelta del candidato premier del centrosinistra alle elezioni politiche del 2006. Tuttavia il salto tra queste primarie e quelle di partito che fondarono il Pd è talmente evidente che non abbisogna di ulteriori precisazioni. L’intuizione minoritaria delle primarie ebbe una doppia genitura. Da un lato, al cospetto di un tenacissimo patto di sindacato generazionale al vertice del maggiore partito della sinistra della cosiddetta seconda repubblica, il Pds-Ds, l’introduzione delle primarie s’incaricava di rendere più contendibile vertice e linea politica. Dall’altro, provava a fondare la cultura politica del nuovo partito sul modello della larga partecipazione di base, propria delle primarie.

 

Al netto della validità storica e politica di tale doppia genitura, si presentò nondimeno subito un doppio difetto di funzione. Il primo. Chi brandì le primarie come arma di distruzione delle strutture del vecchio gruppo dirigente post comunista, non si pose mai il problema di quali strutture, coerenti allo strumento delle primarie, dovessero sostituire quelle che ci s’incaricava di abbattere. Il secondo. Le primarie, ancorché siano decisamente impattanti sulla struttura organizzativa, non fanno da sole un cultura politica. Anzi, malamente interpretate, possono finire per lusingare i più retrivi istinti anti-politici e anti-partitici.  L’interpretazione ideologica del “primarismo” produsse così distorsioni che, a una prima lettura dello statuto nazionale, di quelli regionali e dei singoli regolamenti delle varie consultazioni, appaiono addirittura lampanti. Ne elenco solo tre.

 

La prima. Alla elezione del segretario-candidato premier si giustappose la strutturazione di un organismo deliberativo di oltre 2000 componenti all’inizio, di 1000 a regime, la cui mole impedisce oggettivamente ogni reale operatività, cui si diede il nome di Convenzione-Assemblea nazionale. Una prima caricatura della situazione americana, la cui Convention di delegati si scioglie il giorno in cui designa il candidato alla presidenza. Ma si doveva frenare la svolta leaderista con una zavorra assemblearista, e ci si inventò un organismo pletorico e inefficiente.

 

La seconda. Pur non estendendo la connessione tra leadership e premiership per la competizione nazionale, connessione che solo giustifica il ricorso alle primarie per gli elettori, lo statuto prevede simili primarie anche per segretari regionali che non sono mai – eccetto pochissime eccezioni – eletti per poi concorrere alla carica di presidente della regione. In America quando i democratici del Maine o del Nevada devono scegliersi il capo del partito non fanno le primarie. E checché ne pensino quelli che di America sanno poco o nulla, queste figure politiche sono tutt’altro che secondarie nell’organizzazione dell’attività del partito e in termini di influenza sulle scelte del partito stesso.

 

[**Video_box_2**]La terza. Negli Stati Uniti, dove le primarie sono regolate per legge, non si sognerebbero mai di far votare elettori che non hanno diritto di voto alle elezioni vere: negli States, chi non gode dei diritti politici non vota alle primarie. Solo l’indulgere in una forma di terzomondismo da mercato del pesce può indurre noi ad un allargamento del selectorate che, qualora ci fosse una legge anche in Italia a normare le primarie, sarebbe legalmente impedito. Risparmiandoci il 99,9 per cento dei ricorsi e delle polemiche sulle primarie locali. 

 

Insomma, molto spesso a voler fare gli americani più degli americani, si finisce per fare la figura di Alberto Sordi: “America’, facce Tarzan”. Non una gran figura.

 

Sostare tanto sul tema delle primarie – mi avvio a concludere – non è utile soltanto perché, come detto, è qui che l’approssimazione del dibattito sul tema dell’organizzazione del Pd si è mostrato con maggiore evidenza. Ma anche perché al tema delle primarie è legato a doppio nodo la questione cruciale della selezione del ceto politico, quindi della classe dirigente. Se la funzione di un partito del ventunesimo secolo non è più quella – grazie a Dio – di “fare l’uomo nuovo”, è chiaro che la selezione di chi, in Parlamento, al Governo o al partito, esercita ruoli direttivi diventa il compito principale  (…).

 

L’idea di un partito di funzionari non ha, e non può avere, alcuna relazione col Pd di Renzi. So bene che ancora oggi, molti parlamentari e consiglieri regionali del partito sono funzionari in aspettativa o in pensione. Ma questa è una circostanza organizzativa inadattabile alla forma di un partito elettorale fondato sulle primarie aperte agli elettori. Non sto qui a disputare sulla sua sostenibilità economica, che pure mi pare incerta. E’ certo che – come pure sostiene Barca – occorre una drastica divisione dei ruoli tra funzionari ed eletti e – diversamente di quanto sostiene Barca – una totale subordinazione dei pochi funzionari ai molti eletti.

 

Non è affatto necessario che tutti gli eletti debbano essere selezionati con le primarie, come d’altronde accade anche negli Stati Uniti. Ma la regola, soprattutto per le cariche monocratiche di governo, deve essere quella delle primarie, per le ragioni di funzione già ampiamente argomentate.

 

Si dirà: altrove, in Europa, i partiti cugini del Pd esercitano vocazione maggioritaria senza primarie. Verissimo. Ma ciò accade perché trattasi di partiti e di gruppi dirigenti che non hanno perduto del tutto accountability perché, diversamente di quanto accaduto in Italia, non hanno conosciuto la stagione del lungo blocco prodotto al vertice dalla generazione dei babyboomer. Blocco determinato al netto di una sequela di sconfitte elettorali e politiche inedite in Europa.

 

[Un solo esempio: nel Labour di Blair e Borwn, per restare al vertice dal 1994 al 2010, la generazione dei babyboomer ha dovuto vincere tre elezioni di fila. Cosa che mai era toccata al più che centenario Partito Laburista britannico. In Italia la stessa generazione è rimasta saldamente al vertice, prima nel partito più grande che ha fondato il Pd e poi nel Pd stesso, dal 1994 al 2013. Ma con qualche vittoria in meno di coevi laburisti.]

 

Non di sole primarie vive un partito. Tutta l’organizzazione dovrebbe essere piegata nella direzione del partito elettorale fondato sulle primarie. Un partito siffatto non può entrare in relazione coi suoi elettori soltanto quando chiede loro di intervenire nella selezione dei propri leader. Deve intrattenere un rapporto simbiotico con essi ogni giorno. Nulla deve iniziare, prodursi e realizzarsi nello spazio chiuso della struttura. La società aperta è l’ambiente dove il partito elettorale deve vivere in cattività e prosperare.

 

E’ in questa società che un partito del genere dovrà trovare libero finanziamento alla propria attività. Ancorché molte democrazie occidentali prevedano ancora forme di finanziamento diretto da parte dello stato, l’abolizione in casa nostra del finanziamento pubblico è una benedizione: perché anzitutto era arrivato a dimensioni eccessive e, in alcuni casi, criminogene; e perché, in seconda istanza, niente ci aiuta a costruire un partito che abbia un rapporto all’insegna della costante reciprocità con la società, più della nuova normativa che regola come si paga la politica in Italia. (…)

 

Abbiamo perso sette anni e non c’è altro tempo da perdere. Una delle condizioni principali di riuscita del lungo ciclo riformista che la leadership di Renzi s’incarica di perseguire, passa per l’organizzazione di una forma partito coerente coi suoi obiettivi di governo. Il giorno giusto per cominciare a costruirlo era ieri.

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