Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

Basta annunci sulla scuola

Giorgio Israel

Istruzione. Dieci cose che il governo deve fare per non perdere la faccia - di Giorgio Israel

La politica degli annunci non è una cosa buona, ma se c’è un contesto nel quale occorrerebbe rigorosamente astenersene è quello dell’istruzione. La scuola è stata trafitta per decenni da politiche di annunci che si sono tradotti in nocive sperimentazioni o sono finiti nel nulla, come il progetto di riforma dei cicli di Luigi Berlinguer. Il caso più clamoroso è quello di un’intera riforma – la Moratti – che, in assenza di decreti attuativi, è rimasta sulla carta. Molti di questi “annunci” erano espressione delle teorie di pedagogisti di stato organici alla classe politica al governo. Ora, a giudicare da quel che venuto fuori dalla presentazione promossa dal premier Renzi siamo passati all’annuncio di un bricolage di pezzi mal congegnati tra loro e provenienti da strani pensatoi. Sta di fatto che la scuola, a forza di annunci, di riforme mai fatte e di sperimentazioni avventate è diventata un terreno melmoso su cui anche il governo più determinato rischia di lasciare le penne, soprattutto se si avventura a indicarlo come decisivo per il futuro del paese. Certo, bisognerà attendere il testo dei decreti o disegni di legge per un giudizio definitivo, ma gli annunci non indicano un pensiero progettuale chiaro. Proviamo a elencare una decina di punti che destano più perplessità.

 

Edilizia. È il tema su cui Renzi si è speso fin dalla sua nomina, un anno fa e su cui, puntualmente, non è successo nulla. Non solo perché non è chiaro da dove verrà fuori il miliardo necessario, ma perché non si è affrontata di petto la questione delle modalità degli appalti, delle procedure, ecc. Troppi sono i casi di scuole che hanno iniziato ristrutturazioni finite nel nulla – come i tronconi di autostrada finiti per aria – per non considerare questa questione come prioritaria. Quando si sente di discussioni bizantine circa le modalità di gestione delle ristrutturazioni, se da affidare ai singoli istituti o a gruppi territoriali di istituti di cui uno avrebbe la funzione direttiva, viene da tremare.

 

Concorsi e precari. Questa è la madre di tutti gli annunci: non si accederà al ruolo di insegnante se non per concorso. Peccato che questo accadrà dopo una colossale infornata ope legis di precari, non è chiaro se dell’ordine di 120.000 o più. Un paradosso degno delle filosofie antiche. Oltretutto, questa assunzione ope legis sarà un gigantesco tappo che renderà virtuale il bando di nuovi concorsi: un infimo rivoletto contrabbandato per rivoluzione epocale. Di fatto, per molti anni, non vi sarà spazio per l’ingresso di nuovi insegnanti, altro che “largo ai giovani”. Certo, qualcosa si doveva fare, a fronte di graduatorie immense di aventi diritto, ma una via era stata indicata a fine 2008 con l’introduzione del TFA (Tirocinio Formativo Attivo), il ritorno ai concorsi, e la prospettiva di ripartire a metà l’assunzione dei nuovi docenti tra giovani e iscritti alle graduatorie. Il TFA è stato strangolato e, dopo sette anni si ripropone problema di assumere i precari d’un colpo solo. Non è colpa di questo governo, d’accordo, ma non si venga a gabellare questa scelta come il trionfo della meritocrazia solo perché in un lontano futuro si tornerà a qualche sparuto concorso.

 

Assunzione degli insegnanti per merito. Il merito è il tema cruciale. Nulla si può obiettare contro il principio che un insegnante deve essere scelto per il suo merito. In linea di principio, neppure si può obiettare contro l’idea di attribuirne il potere al dirigente scolastico. A una serie di condizioni, che sono anni luce lontane dai propositi circolanti. La prima condizione è che il dirigente scolastico sia un solido competente, il primo degli insegnanti della scuola per cultura e autorevolezza: un vero e proprio preside e non un manager stile “dirigente Asl”. Insomma, un personaggio ben diverso da quello disegnato dall’ultimo scandaloso concorso per dirigenti scolastici: un mix di capacità da quiz televisivo e di competenze tecno-didattiche-pedagogiche stabilite nei pensatoi ministeriali con stile da regime sovietico. In secondo luogo, vi è qualcosa che occorre dire senza insopportabili ipocrisie: il nostro sistema, come in gran parte d’Europa, non è privatistico, ma è un sistema pubblico a prevalenza statale. Blaterare di “autonomia” come se le scuole fossero enti privati che si autofinanziano è una indecente presa in giro. Uno stato che paga un istituto non può non controllarne in qualche modo la gestione: vi saranno certamente istituti in cui il preside agirà secondo criteri ineccepibili, altri in cui – pur essendo di indiscussa probità personale – si troverà sottoposto a pressioni insostenibili. Vogliamo offrire un altro terreno di affari alla criminalità organizzata? Il minimo che andrebbe previsto – senza tornare a centralismi ministeriali – è una commissione di assunzione composta dal preside e da altri due provenienti da altre città. È costoso? Le nozze non si fanno con i fichi secchi.

 

Carriera degli insegnanti per merito. Anche qui nascono obiezioni analoghe a quelle sollevate al punto precedente, con due aggravanti. Su che basi saranno valutati gli insegnanti per la progressione della carriera? Sulla base delle loro competenze nelle discipline d’insegnamento e della qualità della loro didattica, o sulla capacità di organizzare attività collaterali o di sostegno, come è stato adombrato? Nel secondo caso, sarà premiato chi organizza ricerche sulla sostenibilità ambientale o sulla teoria del gender e penalizzato il poveretto che ha “perso” tempo a seguire un corso universitario su argomenti di matematica o di letteratura. E chi valuterà? Il profilarsi delle figure dei docenti “tutor” e “mentor” fa rabbrividire, in un paese in cui ogni incarico diventa subito un privilegio castale. È facile prevedere il formarsi di camarillas formate dal dirigente scolastico e dai suoi mentor che mettono all’angolo chi non si adegui alle loro direttive didattiche pur se discutibili. Ci si dovrebbe mettere in mente che la valutazione dei docenti non può prescindere da un giudizio “peer to peer” (tra pari) derivante da commissioni composte oltre che dal preside, da docenti di altre scuole e città, in modo da favorire, nel confronto, l’unico obbiettivo che da senso alla valutazione: la crescita culturale. È costoso? Valga quanto detto al punto precedente.

 

Dicevamo di sperimentazioni nefaste, annunci di leggi abortite e ora di un bricolage di annunci fumosi. In verità, in mezzo a questa nebbia, l’unico nucleo che emerge come una conquista politicamente condivisa a destra e sinistra, l’unico solido trionfo (purtroppo) delle politiche berlusconiane è la scuola delle tre “i”, che ormai tutti accettano. Vediamo come si configura la scuola delle tre “i” nella politica renziana degli annunci.

 

Internet. Neanche il più incallito dei conservatori può negare la necessità di informatizzare la scuola. Ma c’è modo e modo. Pare che ora si prenda atto del fallimento dell’introduzione delle LIM (Lavagne Interattive Multimediali) e si proponga in cambio l’autonomia completa. Ogni istituto si digitalizza come gli pare. Così avremo l’istituto dove si usa solo carta e penna, quello dove si preferiscono i computer, quello dove si opta per una miscela di libri e tablet, e quello dove si adotta il tablet puro. Bisognerebbe poi vedere che tipo di tablet, perché se ogni studente fosse libero di scegliersi il suo modello, si perderebbe metà dell’anno a stabilire un linguaggio comune, per non dire dei dramma di chi passi da un istituto a un altro… Immaginiamo anche quale proliferazione demenziale di “libri” e supporti didattici seguirebbe da una simile liberalizzazione. Non siamo fautori del modello cinese, in cui esiste un solo manuale di matematica per le primarie in tutto il paese, ma esistono vie di mezzo ragionevoli.

 

Coding. V’è un’altra dimensione dell’informatica che si parla di introdurre nelle scuole: lo studio dell’“informatica” come materia, attraverso l’addestramento ai procedimenti logici che presiedono alla formazione dei programmi (“coding”). A parte che questa, se fatta seriamente, è roba di livello universitario, si potrebbe accettare che i principi di base della programmazione vengano spiegati ai ragazzi, a condizione di non pretendere che ne diventino soggetti attivi. Di fatto, sembra che si tratti di un ristretto modulo di insegnamento di logica che, in assenza di risorse, dovrebbe essere svolto dall’insegnante di filosofia. Così il minimalismo si associa allo scempio culturale, simile all’introduzione della materia “geostoria” nella riforma Gelmini. E qui è ancor peggio, perché si finisce col contrabbandare l’idea che la filosofia sia nient’altro che filosofia analitica – una visione che oltre ad essere obsoleta è comunque talmente discutibile da non poter essere introdotta di straforo per via burocratica.

 

[**Video_box_2**]Inglese. La situazione è analoga a quella dell’informatica e del coding. Un conto è promuovere l’insegnamento dell’inglese a tutti i livelli, a condizione di farlo seriamente con insegnanti adeguati. Ma qui si vuol fare molto di più, e cioè – seguendo sconsiderate scelte che hanno adottato paesi a scarso spessore culturale e che mai adotterebbero paesi con una più consistente tradizione letteraria e culturale – insegnare intere materie in inglese. È il cosiddetto Clil (Content and Language Integrated Learning). Qualsiasi cosa se ne pensi, anche una cosa del genere non si realizza con i fichi secchi. Quando si apprende che l’insegnamento Clil di una materia dell’ultimo biennio delle scuole superiori è per ora sospeso per carenza di insegnanti preparati, mentre il governo prospetta di introdurre una materia in inglese per il 3° e 4° anno delle scuole elementari, non si sa se ridere o piangere. Dove trovare i maestri destinati a insegnare matematica o storia a bambini di 8-9 anni che non sanno ancora parlare in italiano, mentre, d’altro lato, si straparla di dare una coscienza nazionale agli immigrati attraverso l’insegnamento dell’italiano a scuola? Sembra di vivere in un film di Alberto Sordi.

 

Impresa. Ci inchiniamo al valore dell’impresa, ma non siamo propensi ad accettare le teorie secondo cui la scuola si salva considerandola un’impresa, perché la conoscenza non è un prodotto, gli insegnanti non sono produttori e alunni e famiglie non sono utenti. Non insistiamo su questo punto toccato molte volte perché tanto non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Ciò non toglie che l’idea di creare una connessione tra scuola e lavoro, attraverso un’alternanza tra didattica ed esperienze in azienda, è buona. Ma anche qui occorre essere chiari e di chiarezza non se ne vede punto, perché non sono precisate le modalità e i contesti in cui dovrebbero realizzarsi queste esperienze, e la loro differenziazione secondo i vari tipi d’istruzione. Oppure si vuole soltanto far passare la sciagurata idea secondo cui il ragazzo deve decidere cosa fare entro i 14 anni e usare la scuola come piattaforma di creazione di addetti per le imprese, a costo zero, secondo un tipico stile italico?

 

Nuove materie. La sensazione che si voglia sgretolare l’assetto disciplinare, colpendo le materie fondamentali, come matematica, storia, letteratura, scienze, si fa forte quando si prospetta un affollamento di altre materie, come storia dell’arte, economia, materie giuridiche – e fin qui passi, a condizione che si dica chi “paga” nell’invariato monte ore – e altre da cui sarebbe meglio tenersi alla larga, come educazione alla cittadinanza ed ecologia: l’educazione civica nasce dalla coscienza storica e non dalle prediche politicamente corrette. Più in generale, in questo confuso panorama, non si spende una parola per l’educazione al pensiero critico. Qualche buontempone continua a voler far credere che questa educazione si riduce alla capacità di risolvere problemi, il “problem solving”. Peccato che, anche nella matematica, la scienza che dà più certezze, esistono molti problemi che non si possono risolvere ed è proprio riflettendo attorno a questi problemi che si acquisisce un pensiero critico e competenze scientifiche (oltre a cogliere il profondo legame tra la cultura scientifica e umanistica). Ma di queste “chiacchiere” sembra che non importi a nessuno.